Belphegor
Totenritual

2017, Nuclear Blast
Death Metal

Dignitosa release per i deathster austriaci: tra fughe all'indietro e vagiti sperimentali i Belphegor conservano intatti i loro blasfemi propositi
Recensione di Giovanni Ausoni - Pubblicata in data: 11/09/17

L'incanto e i profumi della tarda estate avvizziscono di fronte al mefitico attacco all'arma bianca dei Belphegor, storico monicker mitteleuropeo fautore di un oscuro blackened death che, alla pura tecnica e alle costruzioni arzigogolate, preferisce premettere ferocia inaudita e sadica devastazione. Tuttavia, pur restando solidamente aggrappati al proprio marchio di fabbrica, delizia di ultramontanisti defenders, la bestiale creatura di stanza a Puch bei Hellein è stata in grado di assorbire le innovazioni apportate nel genere senza snaturarsi troppo.

 

Dal dilettantesco "Bluthsabbath" (1997), pessimamente registrato e con un utilizzo dell'inglese a dir poco rivedibile, ai fasti caprini di "Lucifer Incestus" (2003), forse l'apice compositivo della carriera, il combo capitanato dal prode Helmuth ha da sempre appagato le sbraitanti platee fornendo pietanze piacevolmente grevi e indigeste: satanismo, pornografia, immaginario da nunexploitation movie, grand guignol e blasfemie assortite, con un gusto dell'orrido spesso folkloristico e in grado di generare un simpatico sorriso sulle labbra del metalhead estremo, abituato a nefandezze d'ogni risma. L'ultimo parto in casa Belphegor, "Conjuring The Dead" (2014), complice la produzione di Erik Rutan, si sbilanciava in direzione di un classico death metal di matrice statunitense arricchito da una vena sinfonica inusuale: se molti hanno storto il naso in segno di diniego, tuttavia complessivamente il platter risultava convincente quantomeno per coraggio, nonostante la presenza di alcuni filler ne decretasse il solerte deterioramento mnestico.

 

"Totenritual" prosegue sulla falsariga del precedente LP, godendo di interessanti modifiche: si accentua l'elemento atmosferico, i cambi di tempo germogliano, la sezione ritmica, forte di una batteria marziale e di un basso voluminoso e roboante, diminuisce la velocità in favore di un approccio pesantemente rallentato e meditabondo, il growl di Lehner latra belluino e sovente filtrato, maggiore spazio viene riservato a fraseggi chitarristici che non disdegnano passaggi più articolati rispetto al solito inflessibile macinio.

 

Il lato negativo del disco consiste nella consanguineità strettissima con lavori del passato alquanto ingombranti, quali "Zos Kia Cultus" dei Behemoth e "Blessed Are The Sick" dei Morbid Angel: non un plagio, bensì una messe di soluzioni teletrasportate di sana pianta e neanche troppo nascoste. L'aura dozzinale che da sempre avvolge la band e che li ha relegati a ensemble di seconda fascia rispetto ad altre formazioni ben più influenti, nel caso corrente si tramuta in scialuppa di salvataggio nel mare magnum dell'imitatio senza personalità: testimonianza che spesso una perizia strumentale non eccessivamente raffinata è in grado di salvare dall'oblio istantaneo un full-length per taluni versi anche audace negli intenti, ma che concretamente non aggiunge nulla di epocale al percorso dei nostri.

 

L'opener "Baphomet" punta su tempi cadenzati e opprimenti, manifesto programmatico sui propositi meno belligeranti del quartetto: l'evocazione del demone genera angoscia e cupi presagi, in un pezzo che emerge come uno degli highlights dell'album. La lunga "Apophis - Black Dragon" alterna urla cavernose a un recitativo salmodiante, tra rintocchi di funebri campane e un refrain che non passa inosservato, mentre l'instrumental "Totenbeschwörer" racchiude in un cigolante scrigno gli inserti melodici presenti nelle altre tracce, disegnando una sorta di leitmotiv wagneriano i cui bagliori pervadono il mefistofelico lotto nella sua interezza. In "Embracing A Star", con un titolo che avrebbe soddisfatto i movimenti slow-core e shoegaze black metal, emergono minacciosi momenti di riflessione strumentale memore dei Deathspell Omega di Mikko Aspa; la breve title-track invece celebra, attraverso la reiterazione ipnotica "Totenritual", una palingenesi avariata e decadente. In un running time di quaranta minuti i brani residui non spiccano per particolari acuti e una durata minore di alcuni di essi avrebbe giovato alla coesione dell'opus e a qualche sbadiglio in meno in fase di ascolto: i monocordi sprazzi doomy in "Totenkult - Exegesis Of Deterioration", ammuffite copie dei sulfurei arpeggi di Trey Azagthoth, ne rappresentano l'esempio lampante.

 

Prodotto medio dunque per gli immarcescibili salisburghesi: "Totenritual" simbolizza al meglio due decadi spese a rimanere fedeli a uno stile ben definito senza tralasciare un pizzico di sperimentazione al fine di non clonare incessantemente se stessi. Malgrado non priva di difetti e piuttosto bolsa in vari frangenti, la release costituisce comunque un mattone evolutivo nella discografia degli austriaci, un tentativo azzardato di superare triti conservatorismi, ma che merita un contenuto plauso per l'arditezza esibita: la perversa scure dei Belphegor continua, malgrado tutto, a mietere vittime.





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