Toto
Toto XIV

2015, Frontiers Records
Hard Rock

"Il commosso ritorno e vivido testamento di quattro ragazzi di Los Angeles."
Recensione di Valerio Cesarini - Pubblicata in data: 17/03/15

Sarebbe da chiedere ad un fan dei Tool di Maynard e compagnia: come ci si sente ad aspettare un album, dei segni di vita in studio, da quasi dieci anni? E soprattutto, se quest'album nasce da obblighi contrattuali con la propria etichetta, cosa succede? C'è allora chi sforna un disco in cinque minuti, operazione legittima. E chi invece ha le motivazioni per tentare la scultura di un capolavoro, quando il tempo è maturo.


Nasce così Toto XIV, quattordicesimo lavoro inedito della band di Los Angeles, dichiaratamente composto per un'opera di dichiarazione artistica, di sinossi finale e di supporto verso gli amici.
Se sarà l'ultimo album non è dato saperlo, quello che è certo è la direzione concettuale intrapresa: dal titolo, è evidente che questo disco vorrebbe essere la continuazione spirituale di IV, l'album che regalò ai Toto la fama imperitura (sì, quello di "Africa", "Rosanna" e quelle canzoni che sono anche belle, ma a un certo punto se le senti in radio gridi pietà). In realtà era lecito pensare che XIV non si sarebbe avvicinato a IV come sonorità, per ovvie ragioni di temporalità, di direzione della band e di line-up; il desiderio era allora di costruire un disco che fosse almeno vario ed eterogeneo come quello dell'82.


A quest'ora, la premessa è stata non solo soddisfatta, ma (forse senza neanche aspettarelo) ampiamente superata. L'album viene presentato con tre singoli, come da tradizione i pezzi più pop del disco: "Orphan il primissimo, che si apre con un arpeggio di Lukather, come per mettere in chiaro chi comanda, sovvertito dal cantato in controtempo (approccio poliritmico al 12/8). Pezzo particolare, lidi soft rock, senza il classico ritornello esplosivo ma stracolmo di temi catchy: per ora non è ancora chiara la direzione della band. Segue "Holy War", altro pezzo piuttosto composito, in questo caso decisamente più rock-oriented, dove si sente per la prima volta la voce di Lukather. Riffing tipico della casa, ritornello corale e potnte, assolo di livello e, peculiare per i Toto, un testo incredibilmente incisivo e studiato, ahinoi fin troppo al passo coi tempi. A questo punto, nonostante molto sia stato detto negli anni a proposito della perizia di questi ragazzi ormai cresciuti, conviene ripeterlo per mettere le cose in chiaro: costruire una canzone pop/classica non è semplice. Cadere nella banalità è eccezionalmente facile, ed è una caduta a cui nessuna band ha mai saputo sottrarsi. Quello che ancora nel 2015 garantisce ai Toto i risultati e i meriti che ottengono, è la capacità di fare questo errore con una frequenza assurdamente rara: confermano coi due singoli la forza di costruire brani che, al di là dei più reconditi desideri sofisticati di alcuni (che verranno esauditi nel disco, ma non è questo il momento), semplicemente "funzionano". Colpiscono e catturano. E' allora il terzo singolo a presentare l'album con più eloquenza: "Burn" è, al contrario delle precedenti, una canzone incentrata su un unico tema, trattato con la dolcezza di un incredibilmente ritrovato Joseph Williams nelle strofe, e con uno dei ritornelli migliori plasmati dalla band in quarant'anni di carriera; melodico e roboante.


E' ufficialmente sdoganato il disco: la opener è "Running Out Of Time", un rock duro e dagli spunti prog, sonorità oscure tipiche dei Toto degli ultimi anni (in particolare Mindfields, uno degli album a cui XIV si avvicina). Soluzioni modali, atmosfere sature, cori giganti si confondono sotto la cornice ancora classica dei brani, conferendo un sapore agrodolce e sofisticato alla canzone. Sapore coerente anche in "21st Century Blues", ennesimo esempio della facilità che i Toto hanno di muoversi fra i generi. Decisamente di stampo Lukatheriano, in tal senso forse un pelino troppo simile a brani come Creep Motel (Transition), nonostante la matrice sia di gruppo, il tema decisamente più "internazionale" e il clichè usato, finalmente, in modo consapevole e pertinente. Effettivamente, nome omen: blues del ventunesimo secolo.


E' allora arrivata la parte più sofisticata del disco, che è anche quella che fa da padrone, dato che consta di 7 brani oscillanti fra generi differenti. Nuovamente Lukather, onnipresente in questo disco, alla voce per "Unknown Soldier", dedica finale al defunto Jeff Porcaro. Fortuna ha voluto che un brano così pretenzioso abbia le carte in regola per esaudire le pretese: melodie struggenti, arrangiamento fra il raffinato e l'epico, assenza di ritornello a favore di un tema ripetuto. E a proposito di Porcaro, due sono i brani firmati e cantati da Steve Porcaro, storico tastierista (e tecnico Yamaha): mai come ora, ovviamente anche per ragioni di rappresentanza, è preponderante la sua influenza sul gruppo. "The Little Things" è una ballad leggerissima e molto condita, in pieno stile Porcaro, forse il brano più rischioso considerata la vicinanza del burrone della semplicità; caduta fortunatamente totalmente schivata, a favore di una canzone moody, fra il maturo e il naif, capace di stupire e al contempo rassicurare. Bend è l'altro brano, firmato anche da Michael Sherwood; trattasi della bonus track giapponese, e già per questo sottovalutato: gioiellino di meno di tre minuti dal messaggio più malinconicamente indiretto, fra tappeti intricati, accordi complessi e tempo disparo. L'ascolto prosegue con il pezzo più "vecchio stile" del disco: "Chinatown", che non a caso viene dallo sviluppo di una registrazione degli anni '80, riprende alcune tematiche della scena statunitense di quei tempi, con un'alternanza fra rock (prog?) e soul nei ritornelli. Se l'avessero sviluppata quando ne registrarono le bozze, chissà che non staremmo a parlare di un altro capolavoro dei tempi. Segue "All The Tears That Shine", ballad smielata firmata Paich e Sherwood, forse l'unico brano di cui si può lamentare per una strofa un tantino debole per questioni di liriche; compensata dal ritornello emozionale, con l'ormai solita costante dei Toto moderni di consegnare sensazioni "da interpretare". Si accompagna "Fortune" a "Chinatown" per la sofisticatezza, che quest'ultimo brano (dove appare Michael McDonald) interpreta però in chiave moderna: si tratta della sublimazione di una delle caratteristiche principali dei Toto, e cioè quella di inserire epiteti complessi in impalcature apparentemente classiche -accordi non appanaggio del pop, carattere lunatico.


Chiude l'album un pezzo largamente anticipato, "Great Expectations", mini prog suite di circa 7 minuti, complessa nella struttura ma soprattutto nell'andamento, spezzato e senza respiro, che risolve in un ritornello sofisticato per poi buttarsi verso una extravaganza che rimanda a sonorità più datate, reinterpretate.


In toto (pun intended) il disco si trova su sonorità molto studiate e pregne, meno oscuro e sbilenco rispetto a dischi come Mindfields, più aperto di lavori come Turn Back, enormemente più vario e moderno di un Toto IV. Stellari le performance di tutti i musicisti, con Paich leggermente da parte, Lukather per il quale non ci sono più parole, Williams rinato (soprattutto senza mai essere stato un cantante eccezionale prima); ma la forza principale dell'album è la costanza: non esiste un brano più debole degli altri. De gustibus, quindi è perfettamente prevedibile che non tutto sarà digerito, ma lo spessore dei brani oscilla fra l' "ottimo" e lo "stellare". Un sollievo per i fan, una bella schivata per il gruppo, che doveva difendersi da naturali pregiudizi riguardanti l'età e le modalità di scrittura del disco.


Una recensione fin troppo sdolcinata, no? Mi piacerebbe dire che non tutto è rose e fiori, come in tutti i dischi...E in effetti qualche difetto c'è, anche se non è nè tematico nè tantomeno musicale.
La produzione poteva oggettivamente essere curata in un modo differente: di responsabilità non di chi suona ma del produttore CJ Vanston, la qualità dell'ascolto è buona, ma ci sono piccoli esempi che saltano all'orecchio: un ritornello oblungo in "Holy War", un processing eccessivo/errato sulle voci in "Unknown Soldier". Difetto che, purtroppo per un disco di un livello inaspettato anche per chi ha sempre abituato bene, non può essere ignorato.. Ma che altro non fa che ricordarci dell'umanità di un album altrimenti alieno.

 

Dedicato con commozione a Michael J Porcaro (29/05/55 - 15/03/15)





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