Vorremmo poter dire di questa band livornese formata nel 1978 che tutti questi anni non li dimostra. Purtroppo non possiamo, perché la loro ambiziosa opera prog rock “Europa Minor”, per quanto curata nel dettaglio, per quanto dotata di un concept interessante, per quanto nata per avere perfino una rappresentazione visiva, resta tuttavia destinata a trovare accoglienza solo fra gli appassionati del progressive fra PFM e EL&P.
Non è che sia il genere a essere “sbagliato” in sé, quanto il fatto che nel complesso il disco risulta troppo prolisso, con i suoi gusti migliori troppo diluiti in lungaggini solistiche che non possono giustificare la propria durata. Un altro aspetto problematico è poi la difficoltà che su disco si percepisce nel seguire il riferimento che le liriche avrebbero nella critica dell'attuale sistema dell'Europa Unita. In molti sensi questo album è un album integralista; d'altronde dopo anni di silenzio, spazzati via dagli 80s che hanno di fatto ammazzato questo genere musicale, i Tugs arrivano solo oggi a debuttare con un album prendendo con molta serietà e passione quel prog con cui non hanno potuto sfondare allora, dati i tempi avversi. Questo disco sa anche di rivincita rispetto al resto del mondo e i livornesi lo animano con un ensemble di ben dieci elementi e composizioni variegatissime dalla durata media di sei minuti per un totale di dodici tracce. Le concessioni alle sonorità medievali, i testi intonati come un poema cavalleresco e le lussureggianti evoluzioni strumentali non potranno che soddisfare quanti siano integralisti quanto lo sono loro verso la musica che scrivono ed eseguono. Poco convincente è, invece, l'interpretazione vocale nella maggioranza dei brani: troppo impostata, poco emozionale nella sua veste artefatta di cantastorie. Tra i momenti migliori sono comunque da annoverare “Il re e il poeta – la corte”: bellissima l'introduzione col moog e le melodie dal sapore piacevolmente antico; in secondo luogo “Pietroburgo 1824” animata da molto più pathos della media e scandita successivamente dalla sezione strumentale più ricca e interessante, fra folklore russo e jazz. Vicini alla conclusione colpisce, per chiudere, l'effetto di quel mandolino che caratterizza la cantata medioevale “Canzone per un anno”, il pezzo che forse trasuda maggiore classe.
Giunti alla fine dell'album, come abbiamo detto, non si potrà dire che esso non risenta di un'estetica nata vecchia, ma allo stesso tempo non si potrà nemmeno giudicarlo troppo male, visto lo spessore delle composizioni e la cura caparbia con cui questi artisti dannatamente coerenti hanno messo insieme quest'opera.