Hanno unnome che è tutto un programma, un vocalist che sembra un sosia di Zappa, una bassista che si prodiga in falsetti improbabli, un chitarrista che per rifforama e pose pare una versione europea di Tom Morello. Vengono da Bristol, ma la psichedelia allucinata del confuso passato britannico preferiscono poggiarla su una solidissima base stoner, su bestiali bordate hard rock.
I Turbowolf erano spuntati in mezzo a uno sperticamento di lodi generale qualche anno fa con il loro roboante esordio, e sono tornati in gran pompa con quel macello di 38 minuti che risponde al nome di "Two Hands". È un beve viaggio in un massacro di power chords stoppati e riff circolari (le potentissime "Rabbit's Foot" e "Good Hand"), in love child punkeggianti dei Black Sabbath e dei Queens Of The Stone Age ("American Mirrors"), in lisergici road trip nel mezzo del nulla del deserto del Mojave (i Tame Impala e i Temples che si incontrano nell'orecchiabile "Nine Lives").
E' un disco innegabilmente accattivante, dall'acclarata -si intenda come un complimento- ignoranza, un'ideale valvola di sfogo dall'intellettualismo di tanto altro alternative. Un granitico pastiche di tante aggressive e nostalgiche sfumature di rock, che non regalerà viste su nuovi orizzonti o una voce da annoverare nelle Halls of Fame (invero, la quasi-adolescenzialità punk del cantato di Chris Georgiadis può far storcere il naso a tanti). E che dà più d'una motivazione per alzare il volume, ben oltre le soglie raccomandate da chi ha a cuore il vostro apparato uditivo.