Non fa a tempo a sciogliersi una formazione con questo altisonante moniker - parliamo del prog symphonic combo nipponico guidato dal geniale Hizaki - che subito arriva qualcuno a raccoglierne l’imponente eredità. Dunque: la press note in nostro possesso ci dice che “sono wave quanto basta”, noi diciamo che non sono wave per niente; e per fortuna, considerata la “lieve” ed “impercettibile” saturazione del mercato. Parliamo dei Versailles, formazione nata dall’incontro tra due musicisti militanti altrove quali Damiano (tra i tanti, Maria Antonietta) e Manu (tra i tanti, Scanners) al lavoro su un garage rock in lo-fi sparato su ruvide creste alternative.
In realtà, magari quel pizzico di malizia wave c’è nell’immaginario della band e nel titolo di un’opera, “1976-1991”, che sembra indicare la nascita e la morte del genere – perlomeno nella sua forma più pura. Ma bastano le note di chitarra dell’iniziale “Uh! Uh! Ah!” per essere catapultati in un mondo rock assai poco oscuro e maggiormente incline ad atmosfere molto USA (“Intro”), oppure su cantilene distorte che fanno molto scazzo punk pop from the ‘90s (“HVS”, “Mare Nero”).
Più The Hives che White Stripes – per manifesta mancanza di nervo soul e derive tanto schizoidi quanto geniali in fase di composizione – i Versailles confezionano il classico disco di mestiere di cui non si può per nulla parlare male, ma di cui non si riesce nemmeno a dire troppo bene. Gli estimatori del genere devono assolutamente concedere l’interesse necessario a capire se l’invito a corte dei Nostri è di quelli a cui rispondere con entusiasmo, magari portando con sé alla festa qualche amico.