Un sincretismo trapelante dal mistico artwork del lavoro dei Letters From The Colony (leggi qui l'intervista), che sembra quasi rappresentare in filigrana la stratificazione altezzosa e veemente del sound degli svedesi. Nata nel 2010 in quel di Borlänge, la giovane band, dopo otto anni di rodaggio spesi tra un paio di EP e qualche cambio di formazione, giunge infatti al sospirato album d'esordio meravigliando per uno stile già piuttosto maturo: "Vignette" palesa un act consapevole dei propri mezzi espressivi e affiatato a sufficienza nell'affrontare una materia sonora sofisticata e tecnicamente impegnativa.
Un amalgama di death metal e math incastrato in fluide costruzioni progressive che strizza l'occhio al djent dei Meshuggah maggiormente sperimentali e alla magniloquenza immediata dei Gojira di "The Way Of All Flesh" (2008) e costruito senza cadere troppo nella trappola del citazionismo fine a se stesso: allusivi bagliori shoegaze, pause profumate di psichedelia e lieve tribalismo contribuiscono alla creazione di un mosaico in cui algebra ed emotività si integrano in un quadro coerente, lasciando una significativa percezione di improvvisazione controllata, nonostante la tentazione di rimirarsi allo specchio e la presenza di passaggi dallo schema prevedibile.
Se l'opener "Galax" si avvale di un estatico trip lisergico, debitore dei Pink Floyd più acidi e immerso in due sezioni di furenti controtempi, che sfuma in una sottile coda space da sospensione cosmica, "Erasing Contrast" si caratterizza per le chitarre in forte downtuning e una cadenza maggiormente asimmetrica: un pezzo dall'equilibrio sbilenco eppure piacevolmente catchy. Prima del breve e sognante instrumental "This Creature Will Haunt Us Forever", la poliritmia selvaggia di "The Final Warning" incendia finalmente le linee vocali cartavetrate di Alexander Backlund, mentre la frammentata sezione ritmica di Emil Östberg e Jonas Sköld, rispettivamente basso e batteria, assume quasi fisionomie da ensemble free form.
La cavalcata dispari di "Cataclysm" rallenta i giri in "Terminus", brano colorato da un chiusa ambient successiva a un riffing work di sulfurea minaccia, in grado di tessere una tela complessa e altrettanto sinistra in "Glass Palaces" e "Sunwise": una coppia di brani marchiata dall'incisivo growl del singer, abile nell'accrescere l'impeto ferino dell'ugola nel corso del disco, e contraddistinta da matematici stop&go, mattanze core e divagazioni post rock. La fluviale title-track, accanto all'usuale esibizione di aggressività e meditazione, gode di un inserto jazz ove non manca lo sfoggio di un sax ben incuneato negli interstizi di un fine ordito tonale: una pista che può essere considerata sintesi e manifesto della proposta multiforme degli scandinavi.
Debutto sorprendente per i Letters From The Colony: non sempre di assimilazione istantanea, a volte gravato da padri ingombranti, tuttavia abbastanza coeso da non risultare dispersivo, "Vignette" combina muscoli e cervello flirtando con atmosfere rarefatte e dilatazioni spigolose. Frequenze labirintiche, per contrasti a basso voltaggio in accelerazione: con l'eleganza maestosa di un cervo in corsa.