Una cosa va detta: niente di quanto raggiunto dalla band di San Diego è stato affidato al caso. E stavolta sì, il risultato è stato meno cupo e paranoico, o meglio, la musica sembra proprio essere il mezzo per riuscire a distrarsi e a non pensare a quel qualcosa che "mai quadrerà nelle nostre vite", proprio come affermato dal Frontman Nathan Williams. Quel qualcosa che genera sconforto, e che in passato aveva pesantemente influenzato il "mood" della Band americana, tra eccessi tossico/alcolici e crisi di personalità.
"Heavy Metal Detox" dà inizio a questa folle corsa, nel suo susseguirsi di suoni più e meno definiti, tra echi di chitarre distorte e a volte cucite sul pezzo alla buona, ma che comunque rendono la traccia estremamente godibile, così come "Way Too Much", eccessiva, come la sbronza cui il testo si riferisce, che sul finale sfocia in un caleidoscopio dei tanto amati suoni "No-fi", giusto per rendere comprensibile lo stato di confusione della band e far girare la testa anche a noi.
C'è anche spazio per l'amore in questo strampalato viaggio: "Pony" ritrae l'ipocondriaco sbalzo di sensazioni di un amore finito: va meglio, poi va peggio, poi bene, poi male. Il sound stavolta ha un carattere più genuino e quanto mai vicino al più semplice prototipo dell'Indie Rock.
E' divertente notare come, proprio quando il disco decide di spogliarsi delle sue eccessività distorte, finisca per perdere anche un po' di fascino. Mentre la già citata "Pony" si mantiene su un buon livello, "All The Same" e "Heart Attack" suonano sì distese, ma a tratti elementari, per lo meno comparate con l'esplosiva improbabilità delle prime tracce. Ma pur senza il paragone, le definiremmo comunque un tantino spente. Che sia perchè i Wavves non vogliano ripetersi nelle loro scelte stilistiche? Più facile pensare che sia il risultato del nuovo approccio alla musica, ma soprattutto alla vita in generale da parte della band, che cerca nei suoi suoni anche un rifugio dalla confusione di una vita quanto mai complessa e malsana (oltre che "piena di merda", sempre secondo il parere di Williams). Nessuno si lamenta della scelta, anzi, ma poteva essere certamente affrontata in maniera più matura e complessa.
Ma su una Montagna Russa, si sa, ad una salita segue sempre la ripidità e il pericolo della discesa, (che in fondo è anche il motivo per il quale si decide di salirci). Ecco dunque giungere "My Head Hurts" e la seguente "Redlead", ben studiata nella sua struttura, con la reattività del basso Post-Punk ed il susseguirsi di brusche interruzioni e distorsioni di chitarra e della linea ritmica in puro stile Noise.
Da qui non ci sono più rettilinei o salite: il disco ripiomba in quel piacere adrenalinico ed un po' sporco che ci davano le prime tracce, in alcuni casi sin troppo similmente a quanto già proposto (Flamezesz), in altri, come con "Tarantula" e con il pop punk di "Wait", rimischiando discretamente le carte, sino ad arrivare al dolce-amaro finale di "Cry Baby", le cui urla e i toni alquanto cupi danno il colpo di grazia all'ascoltatore, che esce spaesato ma comunque divertito dall'esperienza.
"V" è un album appiccicoso e malato, a tratti eccessivo, ma che comunque intrattiene amanti del genere e non, magari non in tutte le sue sfumature. Non è forse il migliore della Band di San Diego, ma è una parentesi coinvolgente ed alienante, che può dare una non indifferente visibilità al gruppo anche a livello mainstream.