We Are Sentinels
We Are Sentinels

2018, CMM/SAOL
Orchestrale

Ecco perchè si deve parlare di "prova autoriale". Barlow lancia la sua voce nel vuoto, in un contesto nudo dove, unica, sostiene quasi del tutto la struttura di ogni canzone.
Recensione di Marco Migliorelli - Pubblicata in data: 26/07/18

In principio furono la rabbia di un immaginario potente e dannato, chiome tentacolari che come un mostro marino s'agitavano in coreografie affascinanti, sul palco di uno storico concerto al "Rodon Club" di Atene, 1999, anno del mastodontico "Alive in Athens". Contrariamente al mito di Sansone, per Matt Barlow, il taglio della lunga chioma -con la quale insieme a Schaffer, fu icona degli Iced Earth per un ventennio-, non significò la perdita della propria forza. Quel taglio simbolico rappresentava una scelta di vita ma non venivano meno il carisma, la personalità e soprattutto la sua voce: una delle migliori nel panorama metal degli ultimi due decenni.

 

Che infine, nella torrida estate del 2018, ci saremmo trovati davanti ad una vera e propria prova autoriale del buon Barlow, ha dell'inatteso; che poi questo sarebbe avvenuto fuori dai canoni del genere metal, ha dell'incredibile. Il merito è anche di Jonah Weingarten, compagno d'arme di Barlow nei Pyramaze e tastierista compositore. La loro collaborazione ha dato vita ad un progetto originale e coraggioso, "We Are Sentinels", la cui anima sorge, vive e si espande nel momento in cui tolta la spina agli strumenti restano: una voce, il pianoforte ed una profusione discreta e magniloquente, a tratti epica, di orchestrazioni.

 

Il primo indizio è nella cover di questo insolito debut: dapprima il bianco a rappresentare un vuoto appena tratteggiato da un volo remoto fino a che poco sotto la roccia montana assicura un solido appiglio, per chi cerca l'ascesa, per chi ancora tenta, nonostante gli anni e le beffe del destino, la via più alta: nel caso di Barlow, la via del canto puro. "From My Tower", opener dell'album, è un punto di vista, l'affaccio vertiginoso da una scogliera a spaziare sulle vicende dell'essere umano su questa terra; che sia nella metafora di un universo parallelo o del mito o ancora nella pienezza della realtà poco importa. La voce si sporge ed estende con una appassionata voglia di narrare con piena empatia, con partecipazione, contrariamente ad ogni precetto lucreziano del distacco emotivo.

 

Ecco perchè si deve parlare di "prova autoriale". Barlow lancia la sua voce nel vuoto, in un contesto nudo dove, unica, sostiene quasi del tutto la struttura di ogni canzone. Nel lungo parapendio di ogni nota, la bravura di Weingarten consiste nel saper accompagnare la voce con discrezione e presenza insieme, limando fra orchestrazioni mai invadenti ed un pianoforte giustamente e spesso in primo piano. Al centro dell'album, una sorta di trilogia dell'Inverno, ben si adagia sui dettami di questa rotta musicale, tenuta più col cuore che con gli usuali strumenti di navigazione. A "Battle in Winter" fa eco la non nascosta ambizione di richiamarsi -e con successo-, alle colonne sonore delle più famose saghe fantasy, ma in "Dreaming in Winter" la musica si piega all'interrogazione di un padre che indugia sul significato e la qualità di quel che trasmettiamo ai figli e più in generale alla generazione che ci succederà, inevitabilmente, attraverso le nostre scelte e azioni:

 

"These gifts we give our children, they help them see into the future"

 

Resta tuttavia "Life, Death, Rebirth", terza traccia di undici, la più riuscita per chi scrive. Essa scandisce suggestivamente un ciclo di morte e rinnovamento, nel quale chi ha seguito e apprezzato questo cantante per anni, non faticherà a leggere un parallelo con la sua (la nostra!), vicenda umana. Il pezzo è infatti quello che più comunica sul piano della continuità fra il passato delle spesse linee vocali dei più celebri brani targati Iced Earth e la rinascita ulteriore in una prova di canto nuova e mai tentata prima.

 

Le fa eco "In Memoriam" che in quella esplosione "Today we celebrate your life", riconosce il dovuto alla morte nel ricordo di una vita vissuta. Alla maturità del testo fanno da scudo le dita sapienti di Weingarten, che intrecciano un profondo giro di pianoforte. Qui come in tutto l'album saper quali tasti toccare sulla piana d'avorio e in quale sequenza, giocando sull'intervallo di pochi secondi, mostra ben visibile l'altro pilastro di "We Are Sentinels": paradossalmente, se l'album suona come una prova solista di Barlow a tutto tondo è proprio perchè Jonah Weingarten, talento che si palesa nella discrezione, ha conosciuto a fondo lo strumento-voce barlowiano, avviluppandolo in un uniforme quanto sfaccettato caleidoscopio di orchestrazioni e decisivi affondi tastieristici. Weingarten ha permesso così a Barlow di addentrarsi in un terreno per lui inusuale grazie ad accompagnamenti strumentali attenti alle qualità espressive del cantante.

 

Il risultato è una prova vocale che non sfigurerebbe, in acustico, accanto a quella del miglior David De Feis. Il cantante e leader dei Virgin Steele è da sempre molto sensibile a questo tipo di composizioni : se da un lato sicuramente apprezzerebbe il debut dei "We Are Sentinels", dall'altro potrebbe trarre significativo spunto per un rilancio della sua magnifica voce, che nel ruggire paga il pegno degli anni, tanto quanto avrebbe ancora moltissimo da dire in un contesto acustico, affiancato dalle sue innate doti compositive.

 

Il finale è letteralmente "Soul On Fire", che ammicca da lontano a certe cadenze proprie dei "Two Steps From Hell" e chiude all'insegna del puro pathos un album coraggioso, avulso da ogni logica del business e maturo, seppur non perfetto, nel puntare tutto sulla vis creativa.

 

Il limite di "We Are Sentinels" è nella possibilità che apre di ulteriori nuovi scenari: la collaborazione di una vera orchestra, l'ipotesi di duetti con altre voci, anche femminili e non da ultimo la convinzione di poter ampliare lo spettro emotivo di questa tipologia di canzoni. L'intuizione, insomma, che un simile esordio possa essere una premessa e non un episodio isolato, nella carriera dei due musicisti.

 


Avremmo potuto avere un classico album solista di Matt Barlow, un nome che basta ancora a se stesso, heavy e pesante al punto giusto. Alte le probabilità che anche lui ci abbia pensato, al bivio. Questa però è stata la sua scelta, questo il messaggio, questo il sentire. La cover perfettamente riarrangiata di "Holy Diver", dopo i titoli di coda, non mente sulla sincerità degli intenti. Ronnie James Dio era una creatura di pura potente voce, in scena fino all'ultimo. Per quanto suoni leggermente fuori dall'insieme rispetto al contesto emotivo degli altri brani, composti fin dall'inizio per essere così come sono, "Holy Diver" in se stessa suggella un progetto, una visione del duo Barlow-Weingarten. Avremmo potuto avere un altro disco solista di puro heavy metal, sicuramente piacevole, da viversi nell'impeto di un'estate ma non è stato così. E allora lasciamoci sorprendere.





01.From My Tower
02.My Only Sin
03.Life, Death, Rebirth
04.Kingdom In Winter
05.Dreaming In Winter
06.Battle In Winter
07.In Memoriam
08.Sirens of Odysseus
09.Miracle
10.Soul On Fire
11.Holy Diver

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