Un membro di troppo, da qui parte la nostra introduzione. Preoccuparsi delle questioni burocratiche, fisiche e tangibili di una band è un bel da fare. Una volta finito il lavoro, preoccuparsi di salire anche on stage e fare la tua parte come frontman è chiedere troppo. Troppo per chiunque. Troppo anche per il poco carismatico ex singer dei We Are The Ocean, Dan Brown, che preoccupandosi del management della band, in realtà, trascurava ciò che lo rendeva un musicista a tutti gli effetti. Basta dare una rapida occhiata al passato della band per rendersi conto che l'apporto di Brown era limitato fin dagli esordi; puramente materiale, oseremmo dire. Episodi passati come "The Waiting Room" o anche "All Of This Has To End" mettevavo già in luce la duttilità e la credibilità di un Liam Cromby, ora come allora, chitarra ritmica e voce. Una band che scrive le linee vocali per il suo cantante poco interessato e compone quindi un album poco ispirato per qualcuno che poi ci strillerà sopra, beh, una band così non va da nessuna parte. Da qui nasce “Ark”, svolta artistica dell’ormai quartetto inglese.
Una svolta musicale a tutti gli effetti, permessa da due importanti fattori: l’aver cacciato senza troppi fronzoli Brown della band ed aver lasciato il microfono nelle mani del buon Cromby. Nessuna ricerca di un cantante quindi, un pò di tempo per risistemare il tumulto non indifferente ed ecco rinascere dalle ceneri una fenice multicolor (l'intero comparto visivo viene rivisto e posto a sua volta nella condizione di poter maturare) capace di mettere insieme un album che si allontana dal sound fino ad ora mostrato ai più. Un alternative rock strutturato su un’ampia tavolozza di colori che spazia per lidi Bellamy-iani e Turner-iani senza mai riprendere o copiare qualcosa. Il post-hardcore del passato lascia quindi spazio ad un sound moderno e pulito, quasi tentato dall’hard rock, che già dalla sola title track dimostra che oltre ad esser rinati, i We Are The Ocean, sono riusciti anche nell’impresa di incorporare interessanti strutture pianistiche, un quartetto d’archi ed un senso sinfonico e della melodia, puro ed intelligente. E’ un viaggio intriso nella varietà musicale quello di “Ark”, conturbante e movimentato (“Shere Khan”) ma anche potente, quasi a voler accentuare la durezza (“The Midnight Law”) di questo “nuovo” sound. Questo non solo permette il giusto godimento di ottimi brani che, in mani sbagliate, avrebbero preso strade fin troppo facili (“Hope You’re Well”), ma farebbe invidia alla solista litania spiccia dei Nickelback, per esempio. Ne guadagna il songwriting (ad’opera dello stesso Cromby), ora maturo e fluido nell’incanalare le emozioni nell’ascoltatore (la stessa title track è un piccolo gioiello nel suo lirismo disarmante). Dodici brani che vogliono disperatamente mostrare ciò che per anni hanno solo nascosto dietro facili canzonette, dodici brani che ora fluiscono dal timbro avvolgente e particolare di Cromby, abile nel modulare e ricreare intensità (“Remember To Remember Them”). Nient'altro che dodici brani ben riusciti dove la musica dei We Are The Ocean viene finalmente a galla, la conferma di una nuova (vecchia) realtà che, attraverso sentieri tortuosi, ha trovato la sua strada.