Trivium
What The Dead Men Say

2020, Roadrunner Records
Heavy Metal

"What The Dead Men Say" è la perfetta sinossi di tutti gli elementi che hanno caratterizzato la carriera del quartetto di Orlando
Recensione di Ludovica Iorio - Pubblicata in data: 24/04/20

E' risaputo che ogni nuovo prodotto in studio che porta la firma dei Trivium viene atteso al varco da critica e pubblico, cosa che, alla resa dei conti, non ha fatto altro che accrescere la nomea attorno alla band di Orlando durante tutti questi venti anni di carriera. Ad essere oggetto di discussione quello che è diventato il loro marchio di fabbrica, ovvero la confluenza di elementi pesanti, melodia e rigore tecnico: se da un canto c'è chi li accusa di una certa mancanza d'inventiva e di cadere all'interno del solito cliché, dall'altro c'è chi apprezza proprio questa formula collaudata da cui non rimane mai deluso.

Da tutto ciò non poteva certo esimersi "What The Dead Men Say", il nono capitolo in studio fresco di pubblicazione. Tre anni fa, "The Sin And The Sentence" aveva segnato una lieve deviazione nel sound, meno grezzo se vogliamo e di conseguenza più immediato all'ascolto, in parte opera anche dell' eccellente mise en place del produttore Josh Wilbur (Korn, Gojira, Lamb Of God), la cui presenza si riconferma in questo nuovo lavoro. Qui, però, si denota una maggiore compattezza e legame sia tra le singole tracce sia globalmente a livello sonoro, in cui tutti i componenti e i relativi strumenti trovano comodamente spazio e si esprimono al meglio, nondimeno l'entrata relativamente recente del batterista Alex Bent, capace in poco tempo di cogliere lo spirito del gruppo, inserirvisi e apportare il proprio personale contributo nel processo di stesura.

Il titolo dell'album si ispira all'omonima novella di Philip K. Dick, ambientata in un mondo fantascientifico in cui i morti possiedono il dono della parola: una grande similitudine tra la vita nell'oltretomba e quella sulla terra, in cui alcuni momenti e situazioni possono farci sentire come "morti dentro" e provare la sensazione di essere sospesi in una sorta di limbo, concetto ampiamente sviluppato nei testi. 

 

Nella prima metà dell'opener strumentale "IX", l'atmosfera creata dall'arpeggio sulla chitarra elettrica risulta al contempo dolce e carica di cattivi presagi, impressione confermata poi dall'incursione di tutto il resto della strumentazione che ci trascina verso la title track. "What The Dead Men Say" - parole pronunciate a gran voce nel ritornello dal leader Matt Heafy e che s'inchiodano nella mente dell'ascoltatore - è fatta di blast beat scoppiettanti, meteore di slide sul manico della sei corde e una breve marcia, che verrà ripresa nella successiva "Catastrophist". Le due tracce risultano molto simili in quanto a impatto (non a caso sono state scelte entrambe come primi due singoli estratti), con la differenza che quest'ultima viaggia globalmente ad un ritmo più incalzante, in cui la voce scivola su un tappeto sonoro intricato per esplodere violentemente in un ritornello dal tono accusatorio. 
Ma è in "Amongst The Shadows & The Stones" che l'headbanging è assicurato: un classico brano da pogo, le cui voci secondarie nel pre-chorus e i colpi di cassa antecedenti al bridge si prestano tranquillamente ad essere accompagnati da urla e battiti di mani della folla.

In "Bleed Into Me" è il basso abilmente suonato da Paolo Gregoletto a essere protagonista: il pezzo ricalca a tratti la struttura della power ballad, come in parte anche "Sickness Unto You", senza però mancare entrambe di strizzare l'occhio ai tipici riff graffianti. A rispecchiare da sola l'intero contenuto dell'album è "The Defiant", caratterizzata da stacchi e ripartenze, cambi tempo ben studiati ed eseguiti, alternanza tra growl e clean, con una menzione speciale all'assolo messo a punto da Corey Beaulieu che, pur nella sua brevità, è uno dei meglio riusciti dell'intero full-length. La batteria in "Scattering The Ashes" - per chi scrive la punta di diamante del lotto - mantiene alta la tensione senza alcuna sbavatura di sorta; una piccola pecca, se così si può dire, è l'inattesa fine dei vari ritornelli, che solamente in quello finale trova la giusta completezza. 
Una piccola parentesi che si discosta dalla fluidità d'insieme è "Bending The Arc To Fear", dove i vari strati sonori vengono apposti in modo piuttosto confusionario. "The Ones We Leave Behind", invece, tirando le fila dell'intero lavoro, può essere definita a pieno titolo una chiusura degna del nome.

"What The Dead Men Say" è la perfetta sinossi di tutti gli elementi che hanno caratterizzato la carriera del quartetto di Orlando, come ha dichiarato lo stesso frontman in una recente intervista. Con le radici ben piantate nel vasto e profondo terreno dell'heavy che ingloba thrash, melodic death e black metal, i Trivium devono, a ogni fatica in studio, cercare di non farsi affossare da queste; pur proponendo delle soluzioni che non si discostano completamente dal nucleo originario sopra descritto, devono dimostrare di suonare comunque freschi, non tanto per dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, ma in primis a loro stessi. E qui in questo senso sembrano aver assolto al proprio compito con ottimi risultati.

 





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