La title track occupa oltre metà dell'album: una suite divisa in due lunghe parti (oltre 30 minuti complessivi) in cui tutta la maestria di Rudess emerge con prepotenza. Tra organo Hammond, moog, piano e sintetizzatori, il pianista si muove con disinvoltura in ogni terreno, suonando ogni sfumatura cromatica possibile. Certamente impressionanti i repentini cambi di stile, un'oscillazione imprevedibile tra progressive rock, fusion, e perfino blues come raramente si è visto nella discografia di Rudess ma che purtroppo non sono legati da un fil rouge se non quello del mero sfoggio tecnico. La componente elettronica ricopre un ruolo fondamentale, ad esempio le voci campionate che introducono la seconda parte della suite sono un ottimo espediente per catturare l'attenzione. Altrettanto non si può dire del resto della traccia che, malgrado riservi qualche sorpresa (le chitarre del talentuoso Alek Darson), alla lunga non risulta così esaltante come sembra pomettere. Anche la performance vocale di Rudess, ridotta all'essenziale, non brilla al primo impatto, così ci pensano l'eterea Marjana Semkina e James LaBrie a risollevare le sorti melodiche della composizione. Nota davvero positiva per le chitarre di Petrucci, indispensabili nell'alternanza con le parti di tastiera, frutto di anni di militanza nella stessa band, e per la precisione di Minneman alle pelli.
Nella seconda metà dell'LP ci imbattiamo in pezzi meno pretenziosi e forse più equilibrati: con la power ballad "Off The Ground" Rudess riprende le sonorità dei Dream Theater e le reinterpreta, le tastiere suonano più tradizionali e gli assoli di chitarra di Guthrie Govan ritrovano un senso. La buona "Drop Twist" si distingue per l'intro stile videogioco arcade e rivela tutto l'ardore di Rudess e lo spirito più heavy nel finale. "Just Can't Win" sviluppa il blues presentato precedentemente con un ospite d'eccezione alla chitarra, Joe Bonamassa, tra i migliori bluesman della scena moderna. E infatti grande spazio viene lasciato al chitarrista di New York tanto da oscurare la sua controparte pianistica sul maestosa coda chiusa da un coro di ottoni, in realtà una prova di spiccata sensibilità per l'arrangiamento. Altro ospite eccellente si trova nell'ultima traccia "Why I Dream". Un pirotecnico groove introduce lo shredder Vinnie Moore, la sua presenza chiude in grande stile "Wired For Madness" con la traccia forse più particolare ed interessante.