Jordan Rudess
Wired For Madness

2019, Mascot
Progressive rock

Recensione di Simone Zangarelli - Pubblicata in data: 28/04/19

Quando artisti dal talento inconfutabile decidono di mettersi in gioco con un nuovo capitolo della loro carriera le aspettative si trovano ad essere più alte del solito. Questo è il turno di Jordan Rudess, non solo uno dei più quotati pianisti in circolazione, ma anche membro da oltre vent'anni dei Dream Theater e cofondatore dei Liquid Tension Experiment. Come se non bastasse, una discreta carriera solista lo vede impegnato dal 1993 fino alla pubblicazione della sua ultima fatica in studio, "Wired For Madness". Sebbene in passato non siano mancati momenti di genialità, come Rhythm Of Time del 2004, stavolta Rudess pare non aver messo a fuoco l'obiettivo, mancando clamorosamente un bersaglio alla sua portata. Già perché il talento del fuoriclasse americano non basta ad evitargli una serie di scelte poco felici che mettono a dura prova l'impianto creativo del disco. Coadiuvato da una serie di musicisti di ottimo calibro, tra cui i compagni di band Marco Minneman e John Petrucci, Rudess ha in mente per questo capitolo forse il suo progetto più ambizioso, sia per durata dell'intero platter che per la mescolanza di più generi e sonorità, ma l'intento può dirsi riuscito?

 

La title track occupa oltre metà dell'album: una suite divisa in due lunghe parti (oltre 30 minuti complessivi) in cui tutta la maestria di Rudess emerge con prepotenza. Tra organo Hammond, moog, piano e sintetizzatori, il pianista si muove con disinvoltura in ogni terreno, suonando ogni sfumatura cromatica possibile. Certamente impressionanti i repentini cambi di stile, un'oscillazione imprevedibile tra progressive rock, fusion, e perfino blues come raramente si è visto nella discografia di Rudess ma che purtroppo non sono legati da un fil rouge se non quello del mero sfoggio tecnico. La componente elettronica ricopre un ruolo fondamentale, ad esempio le voci campionate che introducono la seconda parte della suite sono un ottimo espediente per catturare l'attenzione. Altrettanto non si può dire del resto della traccia che, malgrado riservi qualche sorpresa (le chitarre del talentuoso Alek Darson), alla lunga non risulta così esaltante come sembra pomettere. Anche la performance vocale di Rudess, ridotta all'essenziale, non brilla al primo impatto, così ci pensano l'eterea Marjana Semkina e James LaBrie a risollevare le sorti melodiche della composizione. Nota davvero positiva per le chitarre di Petrucci, indispensabili nell'alternanza con le parti di tastiera, frutto di anni di militanza nella stessa band, e per la precisione di Minneman alle pelli.

 

Nella seconda metà dell'LP ci imbattiamo in pezzi meno pretenziosi e forse più equilibrati: con la power ballad "Off The Ground" Rudess riprende le sonorità dei Dream Theater e le reinterpreta, le tastiere suonano più tradizionali e gli assoli di chitarra di Guthrie Govan ritrovano un senso. La buona "Drop Twist" si distingue per l'intro stile videogioco arcade e rivela tutto l'ardore di Rudess e lo spirito più heavy nel finale. "Just Can't Win" sviluppa il blues presentato precedentemente con un ospite d'eccezione alla chitarra, Joe Bonamassa, tra i migliori bluesman della scena moderna. E infatti grande spazio viene lasciato al chitarrista di New York tanto da oscurare la sua controparte pianistica sul maestosa coda chiusa da un coro di ottoni, in realtà una prova di spiccata sensibilità per l'arrangiamento. Altro ospite eccellente si trova nell'ultima traccia "Why I Dream". Un pirotecnico groove introduce lo shredder Vinnie Moore, la sua presenza chiude in grande stile "Wired For Madness" con la traccia forse più particolare ed interessante.

 

Giunti all'ennesimo ascolto di Wired For Madness si fa fatica a tirare le somme, il disco non lascia quasi nulla se non stupore di fronte a tanta perizia. Rudess mostra (come se ci fosse qualche dubbio) di saper suonare tutto ma a fine puramente esibizionistico, a dimostrazione che non sempre talento tecnico equivale a gusto compositivo. I testi non spiccano per essere particolarmente memorabili, i pezzi suonano già sentiti e bizzarri in certi momenti, intento forse centrato dal tastierista americano che già dalla copertina evoca un immaginario ai limiti dell'eccesso. Ma forse il vero problema è che tramite Wired For Madness Rudess non è riuscito a costruire quell'eredità a cui puntava, quel marchio di fabbrica che lo distinguesse dai DT e LTE a cui inevitabilmente viene associato. Padronanza nell'esecuzione e ottima produzione sono abbastanza per un artista di questo calibro? Niente di nuovo sotto il sole.

 





01. Wired for Madness - Part 1
02. Wired for Madness - Part 2
03. Off the Ground
04. Drop Twist
05. Perpetual Shine
06. Just Can't Win
07. Just for Today
08. Why I Dream

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