Wolfmother
Victorious

2016, Universal
Hard Rock

Recensione di Francesco Benvenuto - Pubblicata in data: 19/02/16

Gli australiani Wolfmother sono giunti alla loro quarta fatica musicale con l'album "Victorious", registrato presso gli Henson Studios di Los Angeles assieme a Brendan O'Brien, già noto per le passate esperienze con Pearl Jam, Soundgarden e Bruce Springsteen. I presupposti per trovarsi di fronte ad un ottimo album ci sono tutti e il trio di certo non manca di qualità.


Anche per i neofiti dei Wolfmother sarà subito facile capire cosa si ascolterà nella mezz'ora successiva: ad aprire l'album troviamo, infatti, il brano "The Love That You Give", manifesto della musicalità della band, condito da potenti riffs di chitarra e dalla particolare voce del cantante Andrew Stockdale, vagamente assimilabile ad un misto tra le inarrivabili ugole di Axl Rose e Ozzy Osbourne. Segue "Victorious", la prima vera killer, nonché title, track dell'album, con la quale il trio australiano inizia a tirar fuori il meglio di sé. Da notare è sicuramente il martellante ritornello "She will be victorious and won't get the battle loss", un vero e proprio invito a cantare per l'ascoltatore. La ripetitività lirica però sembra far da padrona anche nel successivo brano "Baroness", dove la strofa centrale della traccia sembra protrarsi per tutti i 3:15 minuti di canzone. Con la successiva "Pretty Peggy" i Wolfmother si trasformano improvvisamente nei Mumfords & Sons, con cori, tamburelli, chitarre acustiche e chi più ne ha, più ne metta, fino a rendere questa la più elegante delle dieci tracce presenti in "Victorious". L'intermezzo folk non dura molto perché con "City Lights" i tre tornano immediatamente sui loro passi ed al loro tipico sound, ricco di chitarre distorte. L'ascolto procede spedito con "Simple Life" e soprattutto "Best of a Bad Situation", brano nel quale è possibile rintracciare delle sonorità molto pop-rock che fanno tanto "Coldplay".


I Wolfmother sono dunque tornati prepotentemente sulle scene con "Victorious", album di spessore che però non rende onore alle grandi qualità del trio. Di certo le note positive sono tante e tra queste è sicuramente apprezzabile l'inserimento di alcune tracce che vanno oltre il sound tipico della band, ma non si possono ignorare alcune carenze, soprattutto per quanto riguarda il comparto lirico, spesso eccessivamente monotono. Per concludere: i Wolmother hanno convinto, ma non troppo, limitandosi a svolgere quello che si è soliti chiamare "compitino": forse ci si aspettava qualcosa in più.





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