Myles Kennedy
Year Of The Tiger

2018, Napalm Records
Alternative Rock, Blues

Myles Kennedy si lancia nel buio. Il coraggio viene ripagato con un album da applausi.
Recensione di Mattia Schiavone - Pubblicata in data: 01/03/18

La storia di Myles Kennedy è una vicenda che parla di talento cristallino e di rivincita. Parla di un ragazzino che è stato investito di una capacità rara e che si è comprato la prima chitarra della sua vita pulendo stalle. Parla di una carriera sbocciata insieme alle note pacate dei Citizen Swing, prima della deriva un po' grunge e un po' alla Jeff Buckley dei Mayfield Four. Parla di ingiustizie e delusioni, dopo che un progetto simile con due album di tutto rispetto è inspiegabilmente naufragato nello spietato mare dell'industria musicale odierna. Ma racconta anche di chi ha saputo mettere da parte tutte le delusioni di quasi vent'anni di musica e, con l'aiuto di colleghi di un certo livello come Mark Tremonti, dimostrare finalmente al mondo quello di cui era capace quell'ugola miracolata. Ci sono voluti diversi anni prima che Kennedy trovasse finalmente la giusta occasione per farsi notare e dalla pubblicazione dell'esordio degli Alter Bridge "One Day Remains", la carriera del cantante è stata una continua ascesa verso l'Olimpo del rock, sostenuta anche da mostri sacri del calibro di Slash, che ha affidato a all'artista la voce degli suoi ultimi lavori, oltre ai lunghi tour che hanno riempito costantemente le pause degli Alter Bridge. Ma nella carriera di un grande artista arriva sempre il momento della verità. Ad un certo punto sarà inevitabile avere tutti i riflettori puntati addosso e dimostrarsi preparati deve essere una prerogativa per chi si è fatto un nome di un certo calibro. Myles Kennedy, dopo aver cestinato un intero album composto negli anni, si è presentato completamente in solitaria, riuscendo a mettere a tacere le poche voci di chi ancora non credeva in lui.

 

Sembra quasi scontato lodare "Year Of The Tiger" dopo aver ascoltato i dodici ottimi brani che lo compongono, ma bisogna prima di tutto ricordare le origini del lavoro e classificarlo come un vero salto nel buio. Mai nella sua carriera Myles aveva avuto piena facoltà e potere decisionale su ogni sfumatura di un album e la scelta di un concept così personale e doloroso non deve aver aiutato ad allentare la tensione durante la composizione dei brani. Il disco parla infatti della morte del padre dell'artista, avvenuta nel 1974 e causata dalla sua adesione ad una dottrina che non permetteva alcun tipo di cura. Durante lo svolgimento dei brani è chiaro come Kennedy abbia dovuto affrontare diversi fantasmi e il mood generale varia tra dolore, rancore e speranza. Dal punto di vista musicale, "Year Of The Tiger", pur pescando a piene mani da tutti i progetti del cantante, si presenta con un sound inconsueto, che pone le sue radici nel blues, genere amato e prediletto dal cantante. L'album spazia quindi tra atmosfere oscure e solari, mantenendo sempre la propria identità e risultando coeso anche a fronte di brani che presentano diversi elementi.

 

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Fin dalla perfetta opener, che introduce e contemporaneamente riassume il lavoro con precisione, Kennedy è in grado di prenderci per mano e calarci nella sua nuova veste acustica e personale. Il cantante si permette di dilagare già con la successiva "The Great Beyond", un brano fortemente solenne ed evocativo, che ricorda il momento del trapasso del padre. Gli echi della mastodontica "Blackbird" permeano interamente il pezzo, risvegliando quindi anche sensazioni già note, ma comunque eccezionali. Ma è con "Blind Faith" che iniziano le vere novità: la canzone è fortemente blues e il cantante, coadiuvato dalla slide guitar, dimostra di trovarsi totalmente a proprio agio in questo mondo. Sulla stessa lunghezza d'onda sono anche "Devil On The Wall", avvalorata da un fantastico assolo, e "Ghost Of Shangri La", che strizza l'occhio alle ballate degli Alter Bridge. L'album è caratterizzato dalla fedele chitarra acustica, che si intreccia in modo ottimale con gli altri strumenti e progredisce con una media invidiabile, ma è nella seconda metà che viene inanellata un'altra doppietta da urlo. "Nothing But A Name" è infatti un perfetto amalgama di tutti gli stili affrontati negli anni da Kennedy, attraversato da un rancore vibrante e viene seguito dal brano migliore del lotto, "Love Can Only Heal". L'artista si mette totalmente a nudo con questo pezzo crudo in crescendo, in cui una performance vocale da applausi viene conclusa da un assolo da pelle d'oca. Il lavoro continua poi con la piacevole ballata "Songbird", prima di concludersi con "One Fine Day", intrisa di positività e speranza.

 

Lontano e vicino in egual misura dai suoi lavori con gli Alter Bridge e Slash, "Year Of The Tiger" suona come la conferma della smisurata bravura del musicista. Da ultimo, per quanto possa risultare banale, rimane impossibile non spendere alcune parole sulla sua voce, diventata negli anni un marchio di fabbrica. Sono davvero pochi i cantanti attualmente in circolazione in grado di risvegliare emozioni simili tramite la propria ugola. Dopo una pubblicazione simile, l'auspicio è che il cantante possa continuare, in parallelo con gli Alter Bridge, questo nuovo percorso della sua ormai esaltante carriera. La lunga attesa è stata ripagata, il percorso davanti Myles Kennedy è luminoso.





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