Pantera
Cowboys From Hell

1990, Atco Records
Thrash/Groove Metal

Recensione di Giovanni Ausoni - Pubblicata in data: 30/05/17

Annus mirabilis 1990: i Pantera decidono di mutare pelle. Lontani i tempi dell'hair metal, tre album fallimentari, poi l'avvento di Phil Anselmo, voce di matrice hardcore; le acconciature cotonate certo strappano sorrisi, il glam ancora fa sentire la sua presa, ma qualcosa sta cambiando. I Judas Priest versione eighties presi a fonte d'ispirazione non troppo velata, l'irruenza sprigionata a tratti: "Power Metal" (1988) è solo una prova generale, ingenua e forse neanche troppo promettente, ma nel giro di due anni la maturazione appare in via di definizione, quanto per molti versi inaspettata.

 

Tuttavia un disco, come qualsiasi opera in ambito artistico, non nasce dal nulla, ma si inserisce in un contesto (in questo caso quello statunitense) nel quale convivono influenze di varia natura in ambito metal e non solo: i quattro ragazzi texani, con l'indispensabile apporto di Terry Date in fase di produzione, comprendono che il momento è propizio non solo per rinnovare decisamente il proprio sound, ma anche la direzione di un intero movimento. Il Thrash, abbozzato nel lavoro precedente, diviene preponderante, ma conosce una nuova evoluzione: i veloci riff di Dimebag Darrell vengono alternati a frasi stoppate, accelerazioni e rallentamenti si susseguono intensamente, la doppia cassa della batteria del fratello Vinnie Paul emerge inarrestabile e coinvolgente, il basso di Rex Brown, nei full-length precedenti in sordina, martella senza sosta, sopperendo in modo eccellente alla mancanza di una seconda chitarra. A differenza dei nomi più in vista dei thrashers dell'epoca, che puntavano su giri serrati e veloci, oltre che tecnicamente complessi, i Pantera ponevano l'accento sull'empatia del linguaggio ritmico: strutture di grande impatto e facilmente accessibili, poderose e violente, ma allo stesso tempo, a loro modo, estremamente catchy. Su tutto domina una sensazione di freschezza, di aria di rinnovamento: "Cowboys From Hell" possiede le stigmate del lavoro spartiacque, il prototipo di ciò che sarà etichettato, seguendo una discutibile ansia catalogatrice, come groove metal.

 

Al di là di qualsivoglia disputa terminologica, la band elabora una proposta personale e del tutto peculiare, fonte di ispirazione per gruppi successivi (nu metal e similia), ma soprattutto cartina di tornasole del new deal dei nostri. Certo qualche scoria del passato resta, non tutte le canzoni brillano per originalità, la voce di Anselmo in alcuni frangenti assume il sembiante di un Rob Halford di seconda mano: ma se "Vulgar Display Of Power" rappresenterà di lì a poco la massima espressione del combo, "Cowboys From Hell" ne getta indubbiamente le solide fondamenta. Si parte con la tirata title track, sezione ritmica devastante, riff taglienti e spietati, ugola arrugginita e sporca, di fatto vero e proprio manifesto del gruppo, si prosegue con le concentrate e indiavolate "Primal Concrete Sledge" e "Psycho Holiday", antipasti delle ben più prelibate "Heresy" e "Domination", massicce e senza compromessi, tremendamente efficaci on stage: in mezzo "Cemetery Gates", la perla dell'album, una mid-tempo pacatamente aggressiva, con un arpeggio iniziale da brividi e una prestazione vocale carica di sfumature, in un incedere d'insieme che ricorda a tratti i coevi Soundgarden e Alice In Chains, appartenenti non casualmente alla scuderia targata Terry Date.

 

La seconda parte del platter mostra qualche titubanza non tanto dal punto di vista della potenza e dell'impatto, sempre di alto livello, quanto piuttosto di una certa linearità e stanchezza nel proporre i consueti cambi di ritmo, a cui si aggiunge spesso il buon Phil versione power metal; i brani indubbiamente non sfigurano rispetto all'abbrivio fulminante, ma probabilmente un lavoro più coinciso avrebbe giovato. Tuttavia viaggiamo su ottimi binari: dalla breve e diabolica "Shattered", allo splendido instrumental centrale, perfetta sintesi di tecnica e melodia, di "Clash With Reality"; a "Message In Blood", canonico pezzo griffato Pantera, con stacchi e variazioni, fa da contraltare l'atipica "Sleep" dove il basso di Brown gigioneggia nel pezzo forse maggiormente slow-oriented del disco. "Medicine Man" oscilla tra Sepultura e salmodia, mentre un riffing work incalzante caratterizza "The Art Of Shredding", che chiude il viaggio dei nostri tra demoni interiori, oscurità apocalittiche e dipendenze assortite.

 

"Cowboys From Hell" resta dunque un album imprescindibile e significativo, nonostante palpabili difetti: da qui i Pantera partiranno per limare le imperfezioni e codificare un sound riconoscibilissimo oltre che commercialmente redditizio, oliando nel tempo una macchina adorabilmente schiacciasassi.





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