Kamelot
Silverthorn

2012, SPV
Power Metal

Recensione di Marco Belafatti - Pubblicata in data: 27/10/12

Tempo di cambiamenti per i Kamelot, che tornano con un nuovo album ad un anno e mezzo dall'uscita del carismatico Roy Khan dalle fila della band. Tempo di sfide da raccogliere, con un Tommy Karevik (guarda la videointervista) più che motivato a farsi carico del fardello a cui tutti i “sostituti” come lui, in ambito metal, vanno immancabilmente incontro (non è necessario citare per l'ennesima volta il caso Nightwish, non credete?).

Una sfida persa in partenza, se consideriamo che “Silverthorn”, anziché valorizzare le ottime capacità vocali del cantante svedese (già testate sui dischi firmati Seventh Wonder), sembra essere stato scritto con il preciso intento di non destabilizzare minimamente un pubblico fin troppo abituato al timbro del suo predecessore. Sfida doppiamente persa, dal momento in cui il disco scricchiola sotto il peso di composizioni inconsistenti e di un senso della melodia disperso chissà dove. Prendiamo il singolo di lancio “Sacrimony (Angel Of Afterlife)”, che tra una comparsata e l'altra di alcune bellezze al femminile della scena metal, scivola via senza lasciare troppi ricordi di sé (se escludiamo il videoclip, degno di menzione per le scene più agghiaccianti e la computer graphic meno credibile mai vista fino ad oggi in una produzione musicale di questo calibro - anche se in questo settore i Kamelot sono sempre stati dei gran “maestri”, per cui nulla di nuovo sotto il sole). E dire che un tempo Thomas Youngblood e soci hanno saputo comporre duetti di ben altro spessore, come “The Haunting (Somewhere In Time)”... Evidentemente l'era dei bei pezzi sembra essersi incamminata sulla via del tramonto, con la testa china e la coda tra le gambe, e a ricordarcelo intervengono gli arrangiamenti a prova di diabete di una ballad al limite del melenso (“Song For Jolee”), i cori operistici di un'intro che più scontata di così si muore (“Manus Dei”), e la mancanza di mordente fatta musica che risponde al nome di “Ashes To Ashes”.

I pochi (forse pochissimi) spunti positivi di questo decimo full-length in carriera emergono timidamente dalle varie “Veritas”, “My Confession” e “Falling Like The Fahrenheit”, sapientemente posizionate da metà scaletta i avanti, ma si tratta pur sempre di fuochi di paglia, poiché i Kamelot avevano dimostrato con “Poetry For The Poisoned” di saper guardare ben oltre i cliché di un genere – il power metal sinfonico – che cominciava a stare fin troppo stretto al quintetto. Non si può dire lo stesso di “Silverthorn”, che batte vistosamente in ritirata sul piano dell'ispirazione, macinando stereotipi su stereotipi, per giunta suonando cento volte meno consistente di un “The Black Halo” e cento volte meno accattivante di un “Ghost Opera”.

Se di vero e proprio disastro non si può ancora parlare, è chiaro che da un punto di vista squisitamente artistico questo disco abbia l'impatto di una violenta battuta d'arresto. In attesa di tempi migliori, rimangono due sole alternative: accontentarsi di questo compitino svolto con la cura e la perizia del caso, oppure tornare ad ascoltare le vecchie glorie di qualche anno fa. Il resto sono e resteranno semplici chiacchiere da salotto...





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