Freddy Curci, cantante stimato e rispettato nel mondo del Rock, si rimette in discussione con un progetto novello, Zion, capace di catalizzare l’attenzione di musicisti di prima scelta e in grado di ottenere responsi confortanti dalla attuale Frontiers Records, divenuta meritatamente l’etichetta hard rock/aor per eccellenza in Europa.
Un po’ di storia
Curci esordisce con gli Sheriff nel 1979 e quattro anni dopo si ritrova in testa nelle charts degli Stati Uniti D’America grazie al singolo “When I’m With You”. La fine degli Sheriff coincide con la nascita degli Alias, gruppo con il quale Freddy pubblica un album nel 1989 (EMI) e per mezzo del quale riesce, ancora una volta, a scalare le classifiche americane: con “More Than Words Can Say” e “Waiting For Love” per la precisione, firmate dalle penne di Brett Walker e Jeff Paris. Nel 1994 Curci debutta in solitaria, Dreamer’s Road, questo il titolo del suo primo album solista, raggiunge il cuore del pubblico canadese e sei anni dopo, finalmente, la firma apposta su un contratto a lungo termine con la Frontiers Records che rilascia in esclusiva per il mercato italiano una sua compilation di inediti. Ultimo obiettivo: la creazione di un nuovo progetto che possa favorire le qualità vocali del frontman. Reclutati Jason Hook (ex Bullet Boys) e Joey Scoleri alle chitarre, Paul Marangoni (Kim Mitchell, The Works, Coney Hatch) e Joey Creco alla batteria, Ken Malandrino al basso e Ross Greene alle tastiere, non resta che dare un nome al neonato, Zion, inondare il selciato discografico con un mare di copie del disco omonimo e attendere i riscontri.
Il disco
Gli amanti del genere, dopo aver premuto il tasto play tre o al massimo quattro volte torneranno, come per magia, ai loro vecchi classici. L’aor leggiadro dai tratti gentili ed identificabili è avvalorato da una contenutistica raffinata e Zion, nonostante sia un prezioso concentrato di tecnica dello strumento è un pessimo raccoglitore di idee, incollate confusamente una dopo l’altra.
La voce calda e sensuale di Curci si rifà ai classici del firmamento ma, il prestigioso richiamo vocale di Steve Perry , Kevin Cronin e Brad Delp (rispettivamente Journey, REO Speedwagon e Boston) non aiuta a spingere verso l’alto un lavoro che vacilla alticcio sulle prime All It Takes A Minute e How Much Longer Is Forever, barcolla vertiginosamente nell’impianto centrale (I’m Running Home e Everibody’s Watching) e crolla impietosamente sul lungo rettilineo finale, poco prima dell’arrivo (The Devil’s Dance, Who Do You Think You Are, Crash The Mirror).
La metafora enologica per indicare come, un disco “imbottigliato” da rinomati intenditori, non riesca nemmeno a proporsi per l’etichetta “denominazione di origine controllata” e se a questo aggiungiamo una produzione scarna, approssimativa e poco professionale beh… davvero non ci resta che piangere.
Viene allora da chiedersi quale sia la morale comune degli undici alteri (perfino vuoti) capitoli pubblicati per un ascolto sì distensivo che, inaspettatamente, lascerà uno sgradevole retrogusto nel lasso di tempo che separa il temporaneo ricordo dell’ultimo ascolto dal suo precoce e definitivo accantonamento fisico e mnemonico.