Gli Who furono trascinati controvoglia nel tourbillon psichedelico di metà anni ’60, ma “Pet Sounds” e soprattutto “Sgt. Pepper's” avevano stabilito una sorta di standard autoimposto nella composizione e nella produzione di un 33 giri: il resto del beat inglese dovette adeguarsi. Gli Stones erano corsi ai ripari con “Their Satanic Majesties Request”, mentre dall’underground spuntavano ogni giorno agguerriti gruppi acidi: i Tomorrow di Twink e del giovane Chris Howe (futuro Yes) sfornavano uno dei brani simbolo del British-Psych: “My White Bicycle” (maggio 1967) mentre i Pink Floyd avevano appena debuttato con “The Piper at the Gates of Dawn” (agosto 1967).
Gli Who, forse ancora più degli Stones, erano del tutto estranei a filosofie e armonie orientali, espansione della mente, vibrazioni positive e porte della percezione; noti per fracassare i propri strumenti alla fine dei concerti, non sembravano certo un manifesto del pacifismo e della non-violenza; ma da abili professionisti quali erano non rinunciarono alla sfida dei tempi e seppero tracciare una loro personale strada per la nuova musica “progressiva”. Trovarono un ispirato comune denominatore nell’estremizzazione della cultura Pop da “Swinging London”, che pervade questo album colorato nelle immagini, ironico (e autoironico) nella forma, “rockadelico” nella musica, che non rinnega le origini Soul e Rn’B del complesso, pur aprendosi a liriche voluttuose e arrangiamenti fantasiosi.
La voce “concreta” di Daltrey fatica ad adattarsi ai registri trasognati e infantili à la Byrds mentre Townsend è addirittura l’opposto degli imminenti liquidi virtuosismi di Gilmour e delle evoluzioni da “acid-rock” west coast. Ciononostante è come sempre la sua chitarra che riempie il sound del gruppo, mentre la batteria di Moon può finalmente liberarsi in tutta la sua fantasia.
I pezzi furono per la maggior parte registrati nell’autunno del 1967; il disco uscì ufficialmente nel gennaio del 1968, preceduto dal singolo: “I Can See for Miles” / "Someone’s coming”.
Come consuetudine del periodo, "The Who Sell Out" si risolve a tratti come un esercizio di stile, di produzione e post-produzione; ma fortunatamente non nasconde la sfrontatezza di un complesso che aveva nelle sue corde tanto i refrain di un pop-rock molto attuale, quanto gli accordi dell’hard allora in fase embrionale. La personalità dei singoli musicisti, la solida base concettuale Pop-Art, la relativa omogeneità di sound e produzione bastano a dare uniformità ad un lavoro sulla carta difficile da amalgamare.
Sulla sponda psichedelica, le sperimentazioni bizzarre e variopinte restano, appunto, sperimentazioni; senza la pretesa di istituire un nuovo genere nè di essere ridondanti o vistose come ogni buon parvenu (e come a tratti succede nell’analogo lavoro degli Stones). Molti pezzi sono sketches istantanei (Zappa docet) che funzionano come trama orizzontale a tutto l’album e rappresentano, nelle intenzioni del gruppo, gli spot, i “caroselli” e i jingle di "Radio London", un broadcast immaginario di cui gli Who sono allo stesso tempo DJ, inserzionisti e performer di ogni stile: da qui una scaletta obbligatoriamente eclettica, ricca di riff elettrici ma disponibile a intrecci semiacustici, fondi sottili di tastiere, bordoni sintetici affogati nel mix. Dal volo atmosferico di “Armenia City in the Sky” (a cui Noel Gallagher dovrebbe erigere un monumento), all’acquerello folk di “Mary Anne With the Shaky Hand”, dal pop di “Odorono” o "Our Love Was”, alla mini suite conclusiva “Rael 1” e “2” (Al Kooper all’organo), che sposta pericolosamente il gioco sul terreno dei Beach Boys: se le armonie del gruppo di Brian Wilson furono forse inarrivabili anche per i Beatles, gli Who ci mettono passione e la solita mirabolante sezione ritmica. C'è spazio anche per il coretto barocco-gregoriano di “Silas Stingy” (a firma Entwistle), e per l'acid-folk malinconico di "Sunrise", con un occhio incerto tra Donovan e David Crosby.
Gli episodi migliori restano quelli di stampo pop-rock che un paio d’anni prima avevano dato celebrità al complesso. Su tutti: “I Can See for Miles”, apice indiscusso e unico vero capolavoro dell’album, nonchè una delle massime canzoni del gruppo, vera cerniera tra la mod-music degli esordi e l’hard di “Who’s Next”; pezzo tiratissimo, gode dei power-chords del chitarrista quanto del continuo collasso della batteria, mentre Daltrey si sgola nella declamazione definitiva: “I can see for miles, and miles, and miles, and milesandmilesandmilesandmilesandmiles !!!”. Il singolo, n° 10 nell’ottobre 1967, fu accompagnato da un bellissimo poster art-nouveau di Michael English e Nigel Waymouth, massimi illustratori dell’underground britannico di fine anni ’60. Allo stesso modo funzionano “Tatto” (… più bella su “Live at Leeds”) e “I Can't Reach You”, Who fino al midollo, dove solo il pianoforte mitiga l’assalto di Townsend.
Molte ristampe CD (MCA-Polydor, 1995; Geffen 2009) aggiungono poi una pletora di bonus track, inediti o pezzi poi comparsi solo su antologie. Tra queste la bella “Melancholia”, in cui Daltrey si riappropria di un efficace e cupo registro centrale, e “Hall of the Mountain King”, buona riduzione rock dal “Peer Gynt” di Grieg, destinata a diventare uno standard del progressive inglese (Egg, ELO, Wakeman).
Come spesso accadeva alla fine degli anni ’60 anche il packaging dell’album era una piccola opera d’arte: una copertina tutta da ridere, con tanto di Roger Daltrey a mollo in una vasca da bagno colma di fagioli…
La liaison psico-attiva degli Who durò nemmeno un anno, dall’uscita di “I Can See for Miles” fino al singolo dell’estate 1968, “Magic Bus”, con i suoi riferimenti alle nuove rotte del turismo alternativo, su una musica che era già quasi hard. Fu una parentesi variopinta e divertente di un gruppo che troverà altrove l’immortalità artistica.
Gli Who, forse ancora più degli Stones, erano del tutto estranei a filosofie e armonie orientali, espansione della mente, vibrazioni positive e porte della percezione; noti per fracassare i propri strumenti alla fine dei concerti, non sembravano certo un manifesto del pacifismo e della non-violenza; ma da abili professionisti quali erano non rinunciarono alla sfida dei tempi e seppero tracciare una loro personale strada per la nuova musica “progressiva”. Trovarono un ispirato comune denominatore nell’estremizzazione della cultura Pop da “Swinging London”, che pervade questo album colorato nelle immagini, ironico (e autoironico) nella forma, “rockadelico” nella musica, che non rinnega le origini Soul e Rn’B del complesso, pur aprendosi a liriche voluttuose e arrangiamenti fantasiosi.
La voce “concreta” di Daltrey fatica ad adattarsi ai registri trasognati e infantili à la Byrds mentre Townsend è addirittura l’opposto degli imminenti liquidi virtuosismi di Gilmour e delle evoluzioni da “acid-rock” west coast. Ciononostante è come sempre la sua chitarra che riempie il sound del gruppo, mentre la batteria di Moon può finalmente liberarsi in tutta la sua fantasia.
I pezzi furono per la maggior parte registrati nell’autunno del 1967; il disco uscì ufficialmente nel gennaio del 1968, preceduto dal singolo: “I Can See for Miles” / "Someone’s coming”.
Come consuetudine del periodo, "The Who Sell Out" si risolve a tratti come un esercizio di stile, di produzione e post-produzione; ma fortunatamente non nasconde la sfrontatezza di un complesso che aveva nelle sue corde tanto i refrain di un pop-rock molto attuale, quanto gli accordi dell’hard allora in fase embrionale. La personalità dei singoli musicisti, la solida base concettuale Pop-Art, la relativa omogeneità di sound e produzione bastano a dare uniformità ad un lavoro sulla carta difficile da amalgamare.
Sulla sponda psichedelica, le sperimentazioni bizzarre e variopinte restano, appunto, sperimentazioni; senza la pretesa di istituire un nuovo genere nè di essere ridondanti o vistose come ogni buon parvenu (e come a tratti succede nell’analogo lavoro degli Stones). Molti pezzi sono sketches istantanei (Zappa docet) che funzionano come trama orizzontale a tutto l’album e rappresentano, nelle intenzioni del gruppo, gli spot, i “caroselli” e i jingle di "Radio London", un broadcast immaginario di cui gli Who sono allo stesso tempo DJ, inserzionisti e performer di ogni stile: da qui una scaletta obbligatoriamente eclettica, ricca di riff elettrici ma disponibile a intrecci semiacustici, fondi sottili di tastiere, bordoni sintetici affogati nel mix. Dal volo atmosferico di “Armenia City in the Sky” (a cui Noel Gallagher dovrebbe erigere un monumento), all’acquerello folk di “Mary Anne With the Shaky Hand”, dal pop di “Odorono” o "Our Love Was”, alla mini suite conclusiva “Rael 1” e “2” (Al Kooper all’organo), che sposta pericolosamente il gioco sul terreno dei Beach Boys: se le armonie del gruppo di Brian Wilson furono forse inarrivabili anche per i Beatles, gli Who ci mettono passione e la solita mirabolante sezione ritmica. C'è spazio anche per il coretto barocco-gregoriano di “Silas Stingy” (a firma Entwistle), e per l'acid-folk malinconico di "Sunrise", con un occhio incerto tra Donovan e David Crosby.
Gli episodi migliori restano quelli di stampo pop-rock che un paio d’anni prima avevano dato celebrità al complesso. Su tutti: “I Can See for Miles”, apice indiscusso e unico vero capolavoro dell’album, nonchè una delle massime canzoni del gruppo, vera cerniera tra la mod-music degli esordi e l’hard di “Who’s Next”; pezzo tiratissimo, gode dei power-chords del chitarrista quanto del continuo collasso della batteria, mentre Daltrey si sgola nella declamazione definitiva: “I can see for miles, and miles, and miles, and milesandmilesandmilesandmilesandmiles !!!”. Il singolo, n° 10 nell’ottobre 1967, fu accompagnato da un bellissimo poster art-nouveau di Michael English e Nigel Waymouth, massimi illustratori dell’underground britannico di fine anni ’60. Allo stesso modo funzionano “Tatto” (… più bella su “Live at Leeds”) e “I Can't Reach You”, Who fino al midollo, dove solo il pianoforte mitiga l’assalto di Townsend.
Molte ristampe CD (MCA-Polydor, 1995; Geffen 2009) aggiungono poi una pletora di bonus track, inediti o pezzi poi comparsi solo su antologie. Tra queste la bella “Melancholia”, in cui Daltrey si riappropria di un efficace e cupo registro centrale, e “Hall of the Mountain King”, buona riduzione rock dal “Peer Gynt” di Grieg, destinata a diventare uno standard del progressive inglese (Egg, ELO, Wakeman).
Come spesso accadeva alla fine degli anni ’60 anche il packaging dell’album era una piccola opera d’arte: una copertina tutta da ridere, con tanto di Roger Daltrey a mollo in una vasca da bagno colma di fagioli…
La liaison psico-attiva degli Who durò nemmeno un anno, dall’uscita di “I Can See for Miles” fino al singolo dell’estate 1968, “Magic Bus”, con i suoi riferimenti alle nuove rotte del turismo alternativo, su una musica che era già quasi hard. Fu una parentesi variopinta e divertente di un gruppo che troverà altrove l’immortalità artistica.