Il ritorno in sella del cantante originario Scott Reagers, dalla voce istrionica e teatrale, permette al combo di ritrovare una discreta coesione di scrittura e interpretazione dopo la mezza delusione di "Lille: F-65": intitolare l'album al pari dell'ottimo esordio, poi, manifesta da un lato il proposito di pescare dal passato determinati elementi strutturali, dall'altro la volontà di chiudere, forse definitivamente, un sentiero artistico intrapreso quattro decadi orsono.
Così, quando le pennate distorte all'inverosimile di "Remains" o "Last Breath" minacciano di curvare l'asse d'inclinazione terrestre, quando i feedback allucinati di "Wormhole" mettono a dura prova il precario equilibrio auricolare dell'umanità, quando "Bloodshed" e "12 Years In Tomb" evocano collaborazioni occulte tra Jimi Hendrix e Tony Iommi, ci accorgiamo che il full-length non è frutto di una stagionata boutade. Certo, non tutto quadra alla perfezione: "A Prelude To ..." sa di sperimentazione poco convinta, "Hour Glass" non va oltre una solida rispettabilità di maniera, l'intermezzo ambient "City Park" rappresenta una superflua nota di colore. Nel complesso, però, il platter funziona, benché i nostri non brillino, fisiologicamente, per variazioni cromatiche.
I Saint Vitus, dunque, tornano sé stessi: malgrado "Born Too Late" e "Die Healing" restino insuperabili, i canuti araldi della musica del destino costruiscono un lavoro comunque degno della loro carriera. E un verso epitaffio come "A fitting way to end your time" la dice lunga sul significato recondito del disco.