SpazioRock presenta: Back Catalogue #7
Con Arcangelo Accurso indaghiamo la scena rock inglese dei gloriosi anni '70


Articolo a cura di Arcangelo Accurso - Pubblicata in data: 12/06/12
BACK CATALOGUE #7: JEFF BECK GROUP

Le buone frequentazioni aiutano a crescere; probabilmente lo potrebbe confermare Jeff Beck ricordando i primi anni della sua carriera ed il tempo passato con Jimmy Page negli Yardbirds, o ripensando alle collaborazioni con John Paul Jones e Keith Moon, oppure a quelle possibili con Eric Clapton, Jimi Hendrix o i Pink Floyd. Erano queste fra le conoscenze di Beck a metà degli anni ’60, un ambiente che musicalmente avrebbe fatto del bene a chiunque. Infatti quando nel 1967 si mette in proprio non ha difficoltà a coinvolgere nel progetto del suo Jeff Beck Group personaggi come Rod Stewart o Ron Wood. Ma le intenzioni da sole non bastano ed il gruppo passa mesi e mesi attraverso esibizioni dal vivo e la pubblicazione di diversi singoli (pezzi blues), fra alti e bassi che non promettono di far veramente decollare le cose. I membri della band stanno quindi per gettare la spugna quando accettano un breve tour negli Stati Uniti come ultimo tentativo per proseguire l’avventura comune, fatto che però rivoluziona il loro destino perché si impongono all’attenzione del pubblico per aver surclassato in quell’occasione nientemeno che i Grateful Dead, a cui fanno da spalla per poche serate a New York. Questo successo li rianimò e li spinse alla realizzazione del proprio primo album.

Così nell’estate del 1968 esce “Truth”, un album con tre soli brani originali e la solita serie di cover (di Dixon e Yardbirds), come d’uso all’epoca. Ma è il suono a fare la differenza, quello della chitarra di Beck in particolare; il sound complessivo infatti è moderno, pieno, netto e diretto, l’annuncio dell’hard-rock che verrà. È questa miscela pertanto che, pur offrendo un disco di blues sostanzialmente “bianco”, fa ottenere loro un deciso successo discografico, che garantisce al gruppo un supplemento di visibilità negli Stati Uniti. L’approccio rende Beck fiducioso al punto da replicare l’esperienza, che si concretizza con il successivo “Beck-Ola” del 1969. In questo caso i brani originali sono la maggioranza, ma Beck non rinuncia ad un paio di cover affidandosi (scaltramente) ad Elvis Presley; l’album mantiene la sua matrice hard-blues decisamente trascinante a cui accosta brani strumentali molto descrittivi, però contiene anche spunti melodici sentiti e delicati, affidati al piano di Nicky Hopkins. Insomma, anche questo è un successo, ed il gruppo in America è sulla bocca di tutti; ogni cosa sembra andare a gonfie vele, tanto che vengono anche invitati a partecipare al concerto di Woodstock. In realtà le tensioni interne, soprattutto fra Beck e Stewart, sono al massimo, e si arriva alla decisione inevitabile di sciogliere il gruppo; al grande festival di sempre non parteciperanno, con perenne rammarico dello stesso Beck.

sr_backcatalogue_7_02L’attività quindi va rifondata e la formazione cambia radicalmente, con l’innesto fra gli altri di Cozy Powell e Bobby Tench a rimpiazzare Stewart; nel 1971 il Jeff Beck Group in seconda versione pubblica “Rough And Ready”. L’album è sorprendente ed innovativo, è rock potente con forti iniezioni soul e jazz dove c’è spazio per tutti i musicisti; è un blend eccellente e accattivante, una vera novità per la musica bianca dell’epoca. Citare un brano non avrebbe alcun senso perché è un classico senza tempo, un passo in avanti nel progresso verso lo sviluppo della musica. Intanto per la band le cose si susseguono rapidamente; neanche il tempo per una veloce promozione che Beck ed il gruppo sono di nuovo in studio, per la registrazione di “Jeff Beck Group”, che viene pubblicato nel 1972. L’album è un misto di brani originali e di cover (Bob Dylan, Ashford & Simpson, Stevie Wonder); il lavoro è sempre all’altezza, ben ispirato ed eseguito, ma meno studiato, meno scintillante del precedente, forse assemblato troppo frettolosamente sotto qualche tipo di pressione. Non a caso fra i brani migliori ci sono due cover: “Tonight I’ll Be Staying Here With You” e “Going Down” (in una versione più cattiva e convinta di quella di Clapton, ad esempio); nel complesso infatti l’atmosfera è più orientata verso scelte rock istintive, rispetto agli echi soul e jazz di “Rough And Ready”, necessariamente più bisognosi di riflessione e progettazione (che però si ritrovano in “I Got To Have A Song” o in “Highways”). La frenesia, dopo questo lavoro, stavolta però porta drasticamente ad un nuovo scioglimento del progetto; la coesistenza, fra le persone stesse e fra queste e i vari interessi, in un campo simile ed in quel periodo era un esercizio di vita troppo complicato.

Fare classifiche e classificazioni in musica resta un approccio parecchio discutibile, tuttavia è il caso di sottolineare che Jeff Beck è probabilmente uno fra i migliori musicisti rock di sempre, più di tanti acclamati chitarristi o virtuosi del suo periodo e di quelli successivi. Perché è un precursore completo, nelle scelte stilistiche, nel suono, nell’ibridazione felice, nel trattamento delle armonie e delle melodie. Poteva fare dischi rock come tanti suoi coetanei e compatrioti del tempo, l’avrebbe fatto benissimo; ha scelto di fare dischi di canzoni (cosa spesso riduttiva) e gli sono venuti dei capolavori.


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