Negli anni ’60 l’Inghilterra era una vera fucina di musicisti ed artisti, spinti ad esprimersi anche dalla volontà personale di determinarsi, affermarsi e conquistarsi il diritto ad esistere in una società in piena ricostruzione, materiale e intellettuale. Uno dei maggiori protagonisti di questo vero e proprio movimento a quell’epoca fu John Mayall, l’anello di congiunzione fra il blues e la musica non scritta del Vecchio Continente. Alla sua “bottega” si formarono artisti destinati a rimanere nella storia del rock; uno dei più famosi fu Eric Clapton, uno dei più valorizzati ma meno in evidenza fu Mick Taylor anche se, dopo tre anni nei Bluesbreakers, nel 1969 si unisce ai Rolling Stones.

Così in Taylor i Rolling Stones trovano il sostituto di Jones che, in modo improvviso, inaspettatamente chiude contemporaneamente con la band e con la vita. Ma Taylor irrompe nella storia del gruppo in un momento troppo particolare; i suoi compagni sono più maturi e proiettati in orbite ben superiori, vivono vicende personali ed umane molto complesse e particolari, sono distanti e distratti, alcuni sopraffatti dalle loro stesse esistenze. Mick è più giovane e inesperto, è entrato in un gioco più grande di lui, per il quale non è pronto. Non per questo non partecipa e, anzi, contribuisce a lavori capitali per la storia della formazione come “Sticky Fingers” e “Exile On Main St.”. Pur nelle difficoltà di quel periodo, in cui Richards è devastato da alcool e droga, attaccato dalla giustizia e dal fisco ed estraniato dal mondo, in cui Jagger inizia a considerare un suo futuro cammino separato, che immagina fatto di glamour e di gloria personale, in cui il gruppo si riunisce di malavoglia solo per registrare e per andare in tour sopportandosi a vicenda (per poi disperdersi e dimenticarsi fino alla successiva, inopinata ennesima riunione), Taylor è presente, così come nei momenti seguenti; episodi interlocutori come “Goats Head Soup” (che tuttavia contiene nientemeno che “Angie”) e “It’s Only Rock’n’Roll” del 1974. Ma questo è già il periodo dei “sessionmen”, gli strumentisti a gettone che Richards assolda nell’intenzione un po’ confusa di sostanziare e ammodernare la sua musica; ottimi tastieristi come Nicky Hopkins, Ian Stewart o Billy Preston, o gente come Bobby Keys che fa (e bene) il proprio mestiere, ma distrugge senza proporselo il sound della band (nonché, con gli abusi, la propria esistenza e quella di chi li circonda). È uno dei momenti più bui della storia dei Rolling Stones; Taylor, che è un musicista e non una rockstar, non regge a quel mondo tanto diverso e incomprensibile, e non fa fatica ad abbandonarlo non senza aver prima litigato apertamente con Richards.

Nel prosieguo della sua carriera Taylor ha intrapreso un’avventura da solista inapprezzata dalla massa, che ha condotto in proprio nella ricerca e nell’esplorazione di vari generi musicali; infine si è caratterizzato per una serie di collaborazioni di alto livello, inclusi alcuni episodi isolati con gli stessi Stones. Ha lasciato il gruppo perché non poteva fare altrimenti, non aveva altra scelta; il gruppo lo ha perso perché non aveva la capacità di accoglierlo, di integrarlo. Gli Stones sono e sono sempre stati Richards; la sua musica avrebbe beneficiato di quella di Taylor, la sua fragilità invece si aggrappava a un sostegno incerto (Jagger) e al più tollerava meglio un epigono.