20 anni senza Kurt Cobain
Flusso di coscienza che ripercorre ciò che è stato, con la malinconia di non saper mai ciò che sarebbe potuto essere.


Articolo a cura di Andrea Mariano - Pubblicata in data: 05/04/14

"Cercavo, con i miei occhi... cercavo di dir loro 'Non fatemi del male'." (Kurt Cobain)

 

cobain_speciale_01La foto di un bambino di sette anni. Un sorriso solo accennato, ma felice, sereno. Lo sguardo rivolto oltre l’obiettivo del fotografo. L’azzurro degli occhi che fissano i genitori. La foto di un bambino che col suo caschetto biondo, col suo maglioncino azzurro è ancora desideroso delle gioie della vita. Desiderio che negli anni si tramuterà in bramosia, bramosia che diverrà sconfortante frustrazione e rassegnazione dinanzi alle mille illusioni mascherate da possibili riscatti emotivi e personali.

Dieci anni dopo, quel bambino è diventato un ragazzo che ha trovato nella musica la valvola di sfogo perfetta, il locus amoenus in cui rifugiarsi e trovar sollievo dall’insofferenza verso un ambiente che non riesce ad accettare e ad accettarlo completamente. Ascolta vorace il rasoio delle chitarre e delle ugole del punk, segue con famelica attenzione la scena underground locale. Vuole diventare un chitarrista, ma il suo è un sogno differente da quello degli aspiranti musicisti: non vuole i riflettori, ed anzi li rifugge ben volentieri, non vuole l’attenzione su di sé, non vuole esser una primadonna. Vuole suonare la chitarra ritmica in una band, senza esporsi. Vuole suonare e basta, che siano altri ad addossarsi gli sguardi e l’attenzione della folla. Non ci riesce, ed allora con l’amico di sempre mette in piedi una propria band, capendo che dopotutto cantare non è poi così male, ed è anzi una ulteriore valvola di sfogo da poter sfruttare per se stesso.

Vent’anni dopo quella foto, quel bambino non è più il ragazzo che vuole suonare in disparte, non è più nemmeno il cantante di una band di provincia. Vent’anni dopo quella foto, quel bambino ha avuto il tempo di diventare una delle personalità musicali più influenti del suo presente, passare dall’essere Kurdt a Kurt Cobain, il leader dei Nirvana. Che brutto termine, “leader”. Lui non si considera tale, né vuole esserlo: semplicemente, nella band è il più attivo nella composizione; se gli altri hanno spunti, sono ben accetti, vanno ad amalgamarsi con le sue idee di certo più complete e chiare. Soprattutto, i Nirvana sono il suo riflesso: Krist, Chad, Dave e Pat ne sono consapevoli e lo hanno accettato di buon grado sin dall’inizio.

 

cobain_speciale_02trisLa voglia di suonare, l’andare in tour con un pullmino sgangherato, esibirsi in locali piccoli, poco areati lo esalta e lo deprime al tempo stesso, perché è contento di portare in giro la sua musica, ma è una fatica enorme. Un giorno un distinto rappresentante della dirigenza di un’importante casa discografica incontra i Nirvana e gli propone un contratto che va incontro alle esigenze di tutti: l’etichetta offre relativamente pochi soldi che però sembrano moltissimi alla band, ed in cambio Cobain e soci possono registrare un album che possa fruttare dopo qualche anno qualche soldo. Dopo studi realizzati alla bene e meglio, chilometri di bobine e strumentazione all’avanguardia sono a portata di mano in men che non si dica, partorendo un disco che i discografici considerano buono per vendere qualche migliaio di copie. Ne venderà decine di milioni in breve tempo.

Kurt ne è contento, ma non più di tanto: bel risultato, ma con un suono lontano da quello che aveva immaginato. Soprattutto, è stressato e preoccupato per tutta l’attenzione da parte dei media nei suoi confronti e di cui farebbe volentieri a meno. Voleva essere un chitarrista ritmico, e si è trovato vestito da rockstar: il suo essere trasandato, che è null’altro che il vestiario di un qualunque ventenne dello stato di Washington dei primi anni Novanta, diventa un simbolo, diventa punto di riferimento per una omologazione modaiola che evita di guardare ciò che è ben più in profondità nel Seattle Sound. Lo chiamano Grunge, ed il Grunge ha bisogno del volto di un ragazzo normale ma con l’aura da angelo dannato. Il Grunge diventa il rifugio per una generazione di spiantati a cui serve un punto di riferimento, meglio ancora un portavoce. Lo trova in Cobain, anche se lui non ha mai minimamente cercato né voluto ricoprire quel ruolo. Lui canta per se stesso, e se qualcuno ci si rispecchia, bene, ma è chiedere troppo portare sulle proprie gracili spalle il fardello di milioni di contemporanei.

Tour. Interviste. Mal di stomaco. E allora l’eroina è paradossalmente l’unica maledetta amica che permette di dar sollievo alle sofferenze fisiche più che emotive. Per quelle, il giro di boa era già stato effettuato da tempo. Una relazione d’amore bella quanto logorante, il matrimonio, quel raggio di sole chiamato Frances Bean che concede l’ultima illusione di poter riprendere in mano la propria vita.

 

 

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Ma l’abbiamo scritto prima: il giro di boa era già stato effettuato da tempo. Quella che sembra essere una scialuppa di salvataggio è null’altro che un meraviglioso miraggio verso cui riversare le ultime speranze, verso il quale si fa fatica a comprenderne la natura intangibile ed irrangiungibile.

Di nuovo in studio. Nervi tesi. Sfogo che da tentativo di catarsi diventa solo esternazione di rabbia e disillusione. Di nuovo tour. Noia. Attacchi di panico. Tentativi di suicidio rabbiosamente negati ma chiari a tutti. Nervi negli studi di Mtv. Ultimo lascito musicale tra chitarre acustiche ed orchidee in penombra. Giorni in sala di registrazione senza la sua presenza, tranne in un paio d’occasioni, giusto per registrare una demo di un brano praticamente completo e poi solo jam session.

L’ultimo, estremo, inutile tentativo di convincersi che forse una nuova disintossicazione potrebbe farlo star meglio. Cinque giorni. Fuga. Nessuna notizia. Fino all’8 aprile: un elettricista che deve sistemare l'impianto luci di sicurezza di casa Cobain trova il corpo da tre giorni esanime di Kurt accasciato al suolo, col braccialetto della clinica ancora al polso sinistro ed un fucile accanto. Una lettera indirizzata a Boddah (e non Buddha, come molti hanno creduto), il suo amico immaginario dell’infanzia. L’infanzia felice, spensierata, di quando tutto poteva essere possibile. L’infanzia vivace, così vivace e così lontana. Lontana vent’anni.

 

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Vent’anni son passati non dalla foto del Kurt bambino, ma dal ragazzo spaventato, svuotato e stanco, a cui oramai non interessava più quello che l’aveva aiutato per tanto tempo a tirare avanti: quella musica che tanto gli ha dato e a cui tanto ha dato era troppo distante, non la sentiva più sua, ed invidiava ed ammirava Freddie Mercury: lui era un tutt’uno con la musica, ne godeva e godeva nell’avere davanti a sé folle sterminate di persone, di farle divertire e di prendere da loro tutta l’attenzione e l’energia possibili.

Vent’anni son passati. Altri vent’anni passeranno senza Cobain. Chissà come sarebbero potuti essere questi vent’anni con lui ancora in giro, tra una chitarra ed una tela da dipingere, tra un’orchidea ed un sorriso di sua figlia...

 

"Ho provato a chiamarlo, perché avevo letto che sosteneva di non essere più se stesso. Volevo dirgli: 'Ascolta, non devi fare per forza tutto quello che cazzo ti dicono di fare. Cazzo, smetti di suonare, lascia perdere tutto, non fare più niente.'. Avevo tutto un discorso da fargli, ma non ne ho avuto la possibilità."

Neil Young




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