In Loving Memory of Freddie Mercury
Un ricordo commosso degli ultimi giorni del più grande showman di sempre


Articolo a cura di Giulio Beneventi - Pubblicata in data: 24/11/15

"Avrebbe avuto tutto il diritto di trascorrere gli ultimi giorni preoccupandosi solo di trovare un minimo di conforto, ma non era quel genere di persona. Freddie viveva davvero per gli altri. Se ne andò il 24 novembre 1991 e, diverse settimane dopo il funerale, io ero ancora chiuso nel dolore, ma il giorno di Natale scoprii che Freddie mi aveva lasciato un'ultima testimonianza del suo altruismo. Un amico suonò il campanello e mi consegnò un oggetto avvolto nella federa di un cuscino. La aprii e all'interno trovai un quadro di uno dei miei pittori preferiti, Henry Scott Tuke, accompagnato da un biglietto. Anni prima, io e Freddie ci eravamo inventati un nome per i nostri alter ego drag queen: io ero Sharon, lui Melina. ‘Cara Sharon, ho pensato che l'avresti gradito. Con affetto, Melina. Buon Natale.' Avevo quarantaquattro anni, all'epoca, e stavo piangendo come un bambino. Martoriato dall'AIDS, nei suoi ultimi giorni di vita quest'uomo meraviglioso aveva trovato il tempo e il modo di inviarmi uno stupendo regalo."

 

Elton John

 


Si dice che nell'ora della morte le persone mostrino chi siano realmente, che sprigionino ormai senza il benché minimo freno la loro essenza più intima e, di conseguenza, il loro vero senso della vita e della dignità. Ebbene, dinnanzi a questi stralci di profonda tristezza, a 24 anni esatti di distanza da quel mesto giorno, possiamo cogliere in parte il carattere dell'uomo che fu Farrokh Bulsara, un individuo che neanche al termine della sua silenziosa lotta contro un male incurabile permise l'oscuramento dei pregi che lo avevano reso tanto particolare negli anni addietro. Solo in parte, è vero. Perché dobbiamo ammettere che ancora oggi non sappiamo bene chi sia stato veramente. Con smartphones, blog, twitter, gossip e giornalacci vari, siamo abituati a conoscere tutto delle persone celebri: è una prerogativa fisiologica e allo stesso tempo patologica dell'odierno sistema musicale. Con quel ragazzo proveniente da Zanzibar invece non andò così. Con noi fu un simulatore, se vogliamo, affascinante ma sfuggente, che protesse la sua persona timida e riservata sotto l'ala del suo istrionico alter ego musicale, il leggendario Freddie Mercury, facendo soltanto intravedere le sue più recondite essenzialità: un concentrato esplosivo di dinamismo eclissato precocemente dalla malattia, una primadonna viziata ed egocentrica, innamorata dello stardom e dell'attenzione, ma immensamente generosa e altruista, che adorava stupire gli ospiti alle sue celebri feste o gli spettatori che venivano a vederlo dal vivo. Un vero artista, follemente innamorato del proprio lavoro e della vita in generale.

 

Chi fa del cinismo la sua principal virtù vi dirà con spietatezza che la cosa più proficua che un musicista possa fare per aumentare le vendite sia morire. Sebbene sia tristemente vero, è appurato che Fred non desiderasse in alcun modo la morte e la glorificazione tramite essa. Le pareti di casa sua traboccavano già di trofei di una carriera superlativa, i concerti dei Queen fino al capolinea di Knebworth furono sempre degli enormi successi. No, davvero non la idolatrava, la bieca mietitrice. Come tutti gli esseri umani dotati di ragione, ne aveva profondo timore. E come meglio poté, ne combatté lo spettro: dapprima esiliandosi, pensando quasi che la redenzione potesse curare come una magica panacea le conseguenze di anni troppo selvaggi e poco prudenti. La respinse con tutte le sue forze poi, quando la fredda consapevolezza prese il posto della angosciata speranza, dedicandosi alla sua più grande passione, cantando fino a quando il suo debole corpo riusciva a sostenerlo. Abbandonò dalla sera alla mattina tutti i suoi vizi, la cocaina, il fumo, il sesso. In pratica, ogni piacere della sua turbolenta vita. Della persona precedente, conservò soltanto l'anima giocosa e irriverente, la stessa che lo aveva caratterizzato sin da quando saliva sui banchi di scuola per divertire gli amici, interpretando il suo grande idolo Hendrix in modo osceno con un righello di trenta centimetri poggiato sull'inguine, o quando svegliava i suoi compagni di stanza nel loro appartamento di Ferry Road, di prima mattina, con le schitarrate della sua Fender Stratocaster bianca appena comprata che riproducevano in modo elementare gli Who o Elvis.

 

freddiemercury

 

Da almeno due anni, sapeva già che quel 24 novembre sarebbe arrivato presto. Si preparò perciò al meglio, salutando gli amici più cari, sommergendo di regali il neonato della sua "futura moglie" Mary Austin di cui era stato nominato padrino, godendosi con i più intimi il suo quarantacinquesimo e ultimo compleanno. E dinnanzi all'orrore della sorte dei suoi primi amanti deceduti per lo stesso morbo trasse il proprio coraggio e la volontà di onorare i propri impegni, cercando di nascondere le ulcerazioni della pelle, la calvizie e il catetere al torace. Come per dimostrare fino in fondo che la malattia avrebbe potuto prendere il suo corpo, ma la sua determinazione avrebbe resistito fino all'ultimo. "Beh, questo è quanto, e non voglio che la cosa faccia differenza; non voglio che si sappia, né voglio che se ne parli. Voglio semplicemente andare avanti a lavorare finchè sarò in grado di farlo" avrebbe chiesto ai suoi compagni Brian May, Roger Taylor e John Deacon, i quali con grande rispetto reagirono nascondendo la commozione e tenendosi disponibili con un preavviso minimo, anche per sedute in studio molto brevi. 

 

"Gli amici resteranno amici, fino alla fine".

 

Il freddiemercurycatrapporto nei Queen si irrobustì ancor di più e con una compattezza impronosticabile, come i Beatles con il loro testamento artistico "Abbey Road", rilasciarono materiale per (oltre) due nuovi album, in un ritrovato stato di grazia. I tre musicisti fornivano le canzoni, Freddie le studiava e le eseguiva alla svelta: "Scrivetemi quello che volete, e io lo canto". Per la prima volta nella storia della band, sembrava che stessero creando musica in maniera molto più naturale, senza rendere minimamente conto di pianificazioni commerciali o estenuanti ricerche di hit da classifica. Bisognava fare in fretta, doveva tirare fuori tutto quello che poteva dalla sua vena creativa, prima che il sipario calasse.

 

 

Infine giunse ottobre. A metà del mese vide la luce un singolo di May, di capitale importanza nella musica: "The Show Must Go On". Il tema suonava indirettamente cupo, come una sentenza solo in attesa della sua esecuzione. Il suo video promozionale un elogio funebre.

 

 ("Dentro mi si spezza il cuore / Il trucco si sta sciogliendo / Ma io continuo a sorridere.")

 

"Lo spettacolo deve andare avanti". Sempre. Ad ogni costo. Anche senza il suo principale intrattenitore che, ormai confinato nella sua dimora londinese, troppo debole anche per accarezzare i suoi amati gatti, di lì a poco più di un mese, al tramonto della terza settimana di novembre, avrebbe smesso di esistere.

 

 

E il mondo andò comunque avanti. Per un momento però si fermò, alle 18:48 di quel grigio e freddo pomeriggio, ventiquattro ore scarse dopo il comunicato in tv che annunciava quella sieropositività di cui tutti parlavano dopo lo scandalo del Sun dell'anno prima ma che nessuno davvero riusciva ancora ad accettare. Ogni altra cosa divenne irrilevante, persino la morte di altri musicisti di primaria importanza dall'altra parte del mondo. Lo sguardo internazionale si posò compassionevole sulla villa di Garden Lodge in Earls Court, dove, tra quelle regali mura, Fred si spense nel sonno, nell'intimità che tanto amava, aggrappato alle braccia del suo Jim Hutton come se fosse la vita stessa che gli sfugge, come se fosse l'amore materno di cui parlava l'ultima canzone che iniziò a incidere. Non riuscì mai a finirla, quell'ultima strofa: dovette riposarsi e tornare a casa, con l'intenzione di ripresentarsi in studio poco tempo dopo. L'astenia non glielo permise, facendo chiudere la sua Esecuzione in quel malinconico acuto di Si bemolle. La sua volontà lo guiderà invece fuori dalle spoglie mortali, ormai lontano da quella leggendaria esistenza che lo aveva reso grande e lo aveva elevato dalla povertà, che gli aveva mostrato la bellezza e la sfarzosità ma anche la condizione di diversità e l'odio che ne deriva, sia per l'omosessualità che per la malattia nel suo corpo, un morbo che non aggredisce soltanto il sistema immunitario ma anche il sistema sociale, infettandolo di intolleranza e disprezzo.


In vita, il mortale messaggero degli dei non fece quasi mai esplicita parola dei suoi gusti sessuali, anzi si convinse di poter ingannare la gente e gli spietati giornalisti con cui non ebbe mai un rapporto felice. Non lo fece non per mancanza di rispetto per la comunità gay, ma perché lo riteneva del tutto irrilevante. Perché in vita Freddie fu semplicemente un frontman, un cantante, uno showman. Un simulatore, come si diceva prima. Questo si può dire in sua difesa: tutto ciò che travalicava la musica e lo spettacolo non doveva interessare nessun'altro. Né scrisse mai canzoni di protesta o di orientamento politico. Non lo riteneva opportuno. Scrisse solo composizioni intrise di classicismo, di contemplazione dell'arte e della bellezza del vivere, di amore e di dolore. Di vere emozioni. Degli stessi forti sentimenti che lo accompagnarono fino all'ultimo dei suoi giorni e lo contraddistinsero per il nobile comportamento. Quelle stesse sensazioni che ancora oggi, attraverso le sue note, proviamo tutti noi e che ci comunicano, in fondo, tutto quello c'è da sapere su Freddie Mercury.

 

freddiemercury_04
 
 

One by one, only the good die young

They're only flyin' too close to the sun

And life goes on - without you...

 
(Zanzibar, 5 settembre 1946 - Londra, 24 novembre 1991) 



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