The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains
Un viaggio nel cuore pulsante dei Pink Floyd dalle origini agli ultimi rintocchi


Articolo a cura di Sophia Melfi - Pubblicata in data: 14/01/18
Un titolo per nulla casuale quello della mostra interamente dedicata ad una delle band che hanno fatto la storia della musica definendo, con le proprie stranezze, un nuovo sound psichedelico, tecnologico e innovativo nato nell’Inghilterra degli anni ’60 e diffusosi a macchia d’olio in tutto il mondo. I loro resti mortali, concentrati in un’unica esposizione targata Pink Floyd, sono ambientati in uno dei musei più suggestivi di Londra, il Victoria and Albert Museum. Un luogo di storia, pittura e scultura in cui anche le arti minori trovano spazio e ragion d’essere. Ed è proprio lungo il salone dedicato alla statuaria più antica che si intravedono le indicazioni per la mostra allestita e ideata dal colosso britannico. Dato l’enorme successo riscosso dall’esposizione londinese, si è deciso di riproporre la mostra al MACRO, museo di arte contemporanea di Roma, dal prossimo 19 gennaio 2018. Il viaggio audiovisivo nei 50 anni di carriera della più grande band del rock moderno inizia in modo chiaro, seguendo un filo cronologico ben preciso, dagli esordi di questa sino agli ultimi rintocchi di campana. È infatti sulla storicità della band che si incentra l’esposizione, il cui percorso è raccontato attraverso un viaggio che, come ogni cosa, ha un inizio e una fine. 
 
Ma ora “accendete la mente, sintonizzatevi e abbandonatevi all’infinito”. Il primo manifesto che accoglie i visitatori, alle soglie di un viaggio nelle profondità della psichedelia pink floydiana, è quello che introduce al pubblico il soggetto dell’esposizione tramite una gigantografia dell’album “The Dark Side Of The Moon”, accompagnata da una citazione del giornalista londinese John Peel: “Ho sempre covato un oscuro piacere nella certezza che i Pink Floyd avrebbero conquistato il pubblico di un concerto senza neanche il bisogno di essere riconosciuti”.
 
Si tratta di una delle band più influenti nella storia della musica per via di un sound mai circoscritto ad un unico genere, sperimentale e intellettualmente stimolante, che raccoglie quella che era la quintessenza dello stile e dello humor inglese di quegli anni ’60 di fuoco e rivoluzione tra luci soffuse e sguardi accecati da laser fosforescenti di locandine in stile pop art del primo locale londinese dedicato alla musica psichedelica, l’UFO Club. Il gruppo si forma nel 1965 quando Syd Barrett si unisce al gruppo musicale ufficiale del politecnico di architettura di Londra frequentato da Nick Mason, Richard Wright e Roger Waters, allora chiamatosi The Tea Set. È proprio Barrett, la futura anima psichedelica del gruppo, a proporre il nome The Pink Floyd Sound (di lì a poco evolutosi in Pink Floyd) unendo i nomi di due bluesman, quello di Pink Anderson e Floyd “Dipper Boy” Council. Nel 1966 Londra è come La Mecca, il posto ideale in cui formare una band. Si è totalmente immersi nel nuovo scenario underground, sviluppatosi dopo decenni di austerità post bellica, all’insegna dell’ottimismo, ma soprattutto del boom economico e del rifiuto di qualsiasi forma autoritaria. Negli stessi anni l’International Times azzarda una primissima inquadratura del gruppo definendolo, a cavallo di quegli anni in cui venne completamente rivoluzionato il concetto stesso di musica, “a Psychedelic Pop Group”.
 
pinkfloyd1966
 
Non sono solo gli anni di “All You Need Is Love” e di “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band” dei The Beatles, ma è il periodo della generazione beat e di Mick Jagger che sbuca fuori dal palco come se fosse il nuovo messia. Nuove esperienze, nuovi orizzonti musicali, nuove tendenze. Cabine telefoniche a spirale, manifesti e giornali pieni di colori, figure sfuggenti, sfumate, indefinite e distorte. Sono gli anni della dietilammide 25 dell’acido lisergico e delle canzoni di consapevolezza da acido. Barrett, principe vivace e poeta maledetto, è subito influenzato dalle mode della scena underground londinese e comincia presto a scrivere canzoni e poesie memorabili per la loro intensità e profondità struggente.
 
Londra era la loro casa. Erano parte di una crescente e ribelle cultura giovanile, protagonisti di una generazione pronta a difendere i propri ideali di riforma politica animata da pensieri utopistici, espressione di sé e la scoperta di un nuovo stato mentale. La musica stava diventando la lingua universale dei giovani e, allo stesso tempo, una crescente industria”.
 
Ben tre saloni dell’esposizione vengono dedicati all’estro creativo e all’animo bohémien tormentato di Syd Barrett, il primo e fondamentale tassello del mosaico di un gruppo che avrebbe intrapreso poi strade totalmente diversificate. In questa mostra sono rappresentati gli aspetti più variegati, onirici ed eccentrici dei Pink Floyd, un unico diamante dalle svariate sfaccettature, tanto brillanti da abbagliare. Con “The Piper At The Gates Of Dawn”, registrato ad Abbey Road in contemporanea a “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band”, i Pink Floyd si aprono al fantascientifico e agli spettacoli di luci, immagini e diapositive. Il carisma magnetico di Syd guida il gruppo sino al primissimo singolo registrato, “Arnold Layne”, brano censurato in tutto il paese poiché incoraggiante il travestitismo. Segue “See Emily Play” che contribuisce all’ascesa e al successo commerciale della band britannica verso un’inevitabile popolarità. Il gruppo diventa sempre più in vista, oggetto di attenzione della EMI (futura casa discografica), quanto più fragile. Gli acidi e l’instabilità mentale rendono Syd sempre più assente e irrecuperabile, tanto da arrivare al punto di necessitare di un altro membro del gruppo che lo aiutasse a suonare e cantare dal vivo. Stiamo parlando dell’ingresso di quella che sarà la marca distintiva dei futuri Pink Floyd, David Gilmour. Barrett si isola sempre più e totalmente estraniato dalla realtà che lo circonda si ritira a Cambridge, sua città natale, sino alla sua morte avvenuta nel 2006. A lui, leggendario fondatore destinato a diventare uno dei più grandi miti del rock, sono dedicati i brani “Shine On You Crazy Diamond” e “Wish You Were Here”
 
pinkfloyd1970
 
Con l’abbandono definitivo di Syd, il gruppo si allontana dall’era pop e psichedelica. I Pink Floyd risorgono nel 1970 con la pubblicazione di “Atom Heart Mother”, album a cui è dedicato un intero padiglione della mostra. Una rivoluzione sonora consacrata già dalle origini bizzarre del titolo, ispirato ad un articolo di giornale in cui si legge di una donna che aveva partorito nonostante avesse un peacemaker incorporato. Dalla psichedelia al progressive rock, dalla follia di un diamante “con due buchi neri al posto degli occhi” al blues, al jazz, al funky e allo sperimentale di Gilmour e Waters, i due nuovi pilastri del gruppo, l’album raggiunge precocemente il numero uno delle classifiche britanniche allora maggiormente note, con una prima traccia di circa 20 minuti di suoni, spari, nitriti e cori. Strumenti, schizzi, disegni e poster del gruppo che si dirige progressivamente verso una nuova dimensione trascendentale: “The Dark Side Of the Moon”. Un prisma attraversato da un fascio di luci e colori, un arcobaleno tridimensionale e “The Great Gig In The Sky” in sottofondo. La rivoluzionaria copertina dell’album occupa un’intera parete nera, incorniciata da bozze di testi e foto in bianco e nero dei Pink Floyd sull’onda del successo. “The Dark Side Of the Moon” è anche il primissimo album della band ad essere spedito nello spazio, nonostante la forte opposizione del genere allo space rock che stava propagandosi all’epoca. “Il prisma si rifrange in uno spettro che appartiene a chiunque, materia terrestre e sognante”. “The Dark Side Of The Moon” è un album che tratta di problemi quotidiani, concentrati in temi specifici quali la violenza, la follia, il denaro e la morte su cui Waters si è voluto soffermare. Una realtà a più facce che confonde gli uomini, ma con cui prima o poi tutti dovranno fare i conti, perlomeno fino all’eclissi finale: “All that is Now, All that is gone, All that’s to come and Everything under the Sun is in Tune, but the Sun is eclipsed by the Moon”. Lasciandoci alle spalle le frastornanti immagini tridimensionali del prisma, si intravede la sala dedicata a “Wish You Were Here”, l’album dell’assenza assunto a tema primo. Assenza che non cela una critica serrata alle disumane condizioni imposte a ritmi serrati dalle industrie discografiche: “Welcome to the Machine”, questo mondo spietato che annulla e riduce. Dietro le critiche del concept, l’album rappresenta un chiaro riferimento ad un’assenza a cui Waters e il resto del gruppo non si erano ancora rassegnati, l’assenza di Barrett, al quale vengono dedicati i celebri versi “Remember when You were Young, You shone like the Sun”. 
 
pinkfloyd1977
 
È il 1977, il passato è ormai alle spalle. Dopo i continui dissapori tra Waters, Wright e Gilmour, si arriva ad un compromesso, stabilito tuttavia interamente da Waters. “Sono felice che alla fine i Pink Floyd abbiano scelto la strada giusta, la mia, perché i Pink Floyd sono io e senza di me non esisterebbero in quanto tali”. Prima di entrare nella struttura, ricreata ad hoc, della celebre fabbrica della Battersea Power Station di Londra, una stravagante maglietta attira l’attenzione. A caratteri cubici essa reca scritto: “I HATE PINK FLOYD”, direttamente dalla mano del punk londinese per antonomasia Johnny Rotten, il quale, poco dopo aver compiuto una delle innumerevoli provocazioni protagoniste dell’epoca, ammise di aver incoscientemente indossato quella maglietta e di essere in realtà un grande estimatore della band (come poteva non essere altrimenti?). Ma ecco che si intravedono disegni, fumetti e un maiale gonfiabile volante, sopra la famosa fabbrica della Battersea Power Station, che fa da copertina ad “Animals” (1977), album rivoluzionario per i Pink Floyd. “L’uomo è la sola creatura che consuma senza produrre. Egli non dà latte, non fa uova, non ha abbastanza forza per tirare l’aratro, non è capace di correre abbastanza velocemente per catturare conigli. Ciò nonostante, è il re di tutti gli animali.” (“La fattoria degli animali”, G.Orwell).
 
Capitalismo, guerre, religioni, alienazione sono i temi affrontati da Waters, il quale non cela critiche serrate verso alcuni esponenti politici di allora, una lotta che proseguirà fino al percorso che darà alla luce “The Wall”. È il 1979 quando il bassista elabora ciò che sarebbe presto divenuto un doppio album, seguito da un film e uno spettacolo dal vivo. “The Wall” è l’album destinato a diventare leggenda. L’idea nasce da un crescente disagio di Waters, manifestato in alcune perfomance dal vivo, in cui avrebbe avuto delle liti ravvicinate con alcuni fan. Egli decide di prendere le distanze dal palco e dal pubblico costruendo un muro che venisse poi demolito a fine concerto. Il muro è anche il concept stesso dell’album inteso come barriera insormontabile che ci separa dal resto del mondo, ma che al contempo ci isola, ci protegge e ci dà certezze, come un fragile guscio che per tutta la vita siamo in procinto di costruire. L’album occupa a lungo la posizione numero uno negli USA e l’ottantesimo posto tra i 500 migliori album secondo la rivista Rolling Stone. Il muro che divide è la società moderna contro cui Waters si scaglia violentemente, un muro che al fine di ogni concerto viene frantumato come segnale di speranza. Un sottile filo separa le certezze dalle più profonde paure ed insicurezze che, prima o poi, tutti dovranno affrontare. “Together We stand, divided We fall”, recita uno dei brani più sensazionali composti dalla band, “Hey You”. Infine: “On and On It’s just another Brick in the Wall”. 
 
pinkfloyd1979
 
La frattura è ormai inevitabile, la strada della band si è sgretolata e chiaramente ramificata in due sentieri, quello di Waters e quello di Gilmour. Separazione fatale, soprattutto a causa di problemi di droga, che porterà a “The Final Cut”: “A requiem for the post-war dream by Roger Waters, performed by Pink Floyd: Roger Waters, David Gilmour, Nick Mason”. A dominare la scena, tuttavia, è sempre Waters che, dopo aver licenziato Wright e in eterno contrasto con Gilmour, presto abbandona la band. All’album, infatti, non segue nessun tour. Dopo l’abbandono di Waters nel 1985, segue l’epoca di Gilmour, Mason e il ritorno di Richard Wright sulla scena che vedrà come protagonisti “A Momentary Lapse Of Reason” (1987) e “The Division Bell” (1994), l’ultimo album dei Pink Floyd nonostante l’assenza di Waters. Gli anni ’90 sono anni di fuoco e di cambiamenti per la band. Nel 1996 i Pink Floyd verranno finalmente introdotti nella Rock And Roll Of Fame americana e britannica e nel 2005 si riuniranno inaspettatamente per un’ultimissima perfomance live che precederà una delle perdite più dolorose per l’intera band. Nel 2008 morirà Richard Wright, linfa vitale della band e genio invisibile, a tratti incompreso. Gli ultimi rintocchi giunsero, quindi, col precedente “The Division Bell”, album in cui si conclude metaforicamente il percorso secolare dei Pink Floyd tra innovazione, sperimentazione e rivoluzione del concetto stesso di musica. La fine della mostra si avvicina con una gigantografia della copertina dell’album che si erge in tutta la sua maestosità. Essa raffigura due monoliti che si guardano da vicino comunicando un profondo senso di incomunicabilità con il mondo e con noi stessi: “The Grass was Greener, the Light was Brighter. When Friends surrounded, the Nights of Wonder”. Nel ricordo della luminescenza degli anni passati termina l’epopea dei Pink Floyd e decollano le strade di ognuno, quella del poliedrico artista, musicista e anima jazz David Gilmour, quella dell’eccellente batterista Nick Mason e quella dell’agguerrito Roger Waters. La mostra termina ufficialmente in un salone audiovisivo dalle luci soffuse. Quattro maxi schermi circondano la sala, un muro è eretto intorno ai presenti. Uno ad uno crollano tutti i mattoni tra performance storiche della band, come quella a Venezia nel 1989, e concerti solisti. La stanza trema con i potenti bassi di “Another Brick In The Wall” fino a crollare totalmente con l’assolo sognante di “Comfortably Numb” e altri brani storici del colosso rock sperimentale. “Their Mortal Remains”, i fossili (im)mortali e ancora tangibili di un diamante imploso e sgretolatosi nel tempo, rimasto tutt’ora una fonte di ispirazione per i fan del rock di tutto il mondo. Grazie alla loro musica senza tempo, i Pink Floyd sono stati in grado di catturare alla perfezione lo spirito dell’epoca e di prevedere la musica del futuro. 
 
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