Chiaroscuro Rock
Lo stato di salute attuale del genere rivoluzionario per elezione


Articolo a cura di SpazioRock - Pubblicata in data: 31/12/18
Articolo a cura di Matteo Poli, Giovanni Ausoni, Cristina Cannata
 
 
Come sta il rock nel 2018? Gode di buona, discreta o pessima salute? E se va tutto a gonfie vele, perché da più parti si sente dire che il "rock è morto", che il rock è in crisi? E se c'è crisi, da dove nasce? 
 
 
Spesso si è definito il rock come una bufera sconvolgente, capace di spazzare via la tradizione e ripensarla dalle fondamenta, riproponendola in un'altra nuova forma, che si tratti di innovazioni sonore o contenuti lirici originali. Da che rock è rock, infatti, la vera carta vincente di questo genere assolutamente arrabbiato e duro, è sempre stata quella di rivolgersi al passato, acchiappandolo con prepotenza e mutandone forme e strutture, adeguandolo allo zeitgeist di riferimento. Il rock è per sua natura rivoluzionario. Lo è stato nella misura in cui si è eretto a simbolo stesso della Seconda rivoluzione industriale: l'elettricità e la distorsione che essa produce. In questo senso - tralasciando le manifestazioni anteriori ancora visibilmente legate alla tradizione - il punk, l’industrial e il black metal segnarono certo più profondamente di altri generi le diverse direttrici che il rock avrebbe imboccato in futuro, ma anche qui il termine rivoluzione è da intendere entro certi confini: il punk infatti riprendeva i suoni disossati del rock’n’roll degli anni ’50, un  po' più furente; l’industrial, almeno nella sua forma più pura e provocatoria, flirtava con la psichedelia dei Sixties rovesciandone le prospettive; il black introduceva nell’heavy metal il minimalismo e la scarnificazione della sua struttura portante. La loro importanza non sta solo nell’aver creato una miriade di sottogeneri attraverso una continua riappropriazione del passato, ma nella constatazione che il loro impatto più ampio a livello culturale si è avuto quando lo slancio primevo si era esaurito: una doppia tendenza dunque, che continua oggigiorno e che permette al rock di sopravvivere, sebbene a fatica e con molti punti interrogativi. Del resto la capacità di adattarsi pare rappresenti il grado massimo di evoluzione. E ora dove va il rock? Sta ancora evolvendosi o no? Partiamo dai dati oggettivi.

 
Una delle dimensioni del rock è quella dell'aggregazione: un collante di tante voci che si esprimono insieme. Dando uno sguardo agli ultimi anni, quanta gente va ai concerti? Diciamolo chiaramente: sempre meno. I motivi? Sicuramente disparati, dai più palesi a quelli più incogniti, mistici e difficili da individuare. Guardando alla nostra Italia, una carta da tenere in considerazione è sicuramente il prezzo dei biglietti, che non è sempre una spesa sostenibile con ricorrenza considerando l’attuale situazione economica della gran parte delle famiglie italiane (per fare un esempio, il biglietto più economico per godersi Phil Collins a Milano ammonta a qualcosa come circa 90 euro). Questo spesso costringe a restringere il ventaglio di scelte, rendendole sempre più oculate.   
 
 
Accanto al prezzo, però, c’è altro? Assolutamente sì. Cosa? Difficile dirlo con esattezza. Si è perso l'entusiasmo per l'esperienza live? Non vale più la pena vedere dei gruppi, già affermati o nuovi che siano?   
 
 
brianmayspaciale2018
 
 
Occorre certo fare distinzioni: i nomi di punta del rock mainstream mondiale registrano ancora il tutto esaurito, anche se non con la stessa “regolarità” di un lustro fa. Basti pensare ai Queen a Milano lo scorso giugno o ai Muse che sono ormai lontani dalle 5 date sold out consecutive di qualche anno fa. E se per qualcuno il successo è - quasi - immortale (Metallica, Depeche Mode, Iron Maiden), per altri godere della stessa affluenza di teste paganti è sempre più difficile.  Per gli artisti di genere il discorso cambia: le nicchie, ad esempio, sentono di meno la crisi (vedi l’hardcore o il progressive che vedono sempre più novità seguitissime da fedeli fan popolare il panorama). Ma di chi è la colpa se la gente non va più ai concerti? Ardua è la sentenza. 
 
 
Sotto questo punto di vista, il proliferare di megafestival che raccolgono anno dopo anno affluenze sempre più alte (per il metal, pensiamo al Wacken in Germania o al Graspop in Belgio) sembra quasi una “cura” alla “crisi”, sia lato audience che lato band. I primi riscoprono la dimensione dell’esperienza totale di un evento culturale (incluso il “lato umano”), potendo godere della musica di tantissime band pagando un unico biglietto; gli altri hanno la sicurezza di poter far garantire a tanti un grande spettacolo. Un’altra dimensione su cui questi festival risultano vincenti è senza dubbio la possibilità di dare spazio, accanto ai big name, a piccole realtà nascenti. E qui si apre l’enorme parentesi sui gruppi emergenti. Esistono giovani rock band valide? Quanto è difficile emergere oggi per una rock band? Possiamo dirlo: più di 50 anni fa, meno di qualche anno fa. Ovviamente, con le dovute osservazioni del caso. Da un punto di vista generale, gli strumenti a disposizione degli artisti sono sicuramente tantissimi e più "accessibili": primi fra tutti i social network che garantiscono un potere di comunicazione immenso e che rendono il prodotto artistico potenzialmente disponibile a chiunque abbia una connessione Internet (raggio d'azione global). Ma allora dove sta la difficoltà nell'emergere? Preso atto che le logiche del mercato discografico sono decisamente cambiate rispetto a qualche anno fa, oggi i trend sono diversi e spesso discordanti tra loro. Partendo dal dato di fatto che il panorama musicale è decisamente specializzato e frammentato per generi diversi, la prima cosa che salta all’occhio è che - in accordo con il trend identificato prima - di norma si va poco a concerti di band emergenti, nonostante questi  siano per lo più gratuiti o costino come una birra al sabato sera. Con le dovute eccezioni del caso (si vedano ad esempio le nicchie sopracitate). C’è poca curiosità per alcuni generi, tanta per altri. Da cosa dipende? Da quello da cui è sempre dipeso: l’interesse dell’individuo verso qualcosa piuttosto che un’altra. Nessun trucco, nessun inganno. E' sempre stato così. Ora come cinquanta o sessant'anni fa.  
 
 
pubblicofirenzerocks
 
 
Ad oggi, poi, il panorama è sempre più “indipendente”: firmare dei contratti con case discografiche è quasi una chimera, mentre l’autoproduzione risulta per l’artista una buona scelta - molte volte volontaria - che gli assicura autonomia di azione e creazione, nonostante sia più difficile da sostenere, soprattutto economicamente. Il mondo online, come abbiamo detto, semplifica le cose, nonostante spesso non renda totale giustizia. Qual è il punto? Nulla di diverso rispetto a dieci, venti o sessant'anni fa: si premiano gli audaci, gli innovatori… e i simpatici. Avere un buon sito e migliaia di follower virtuali aumenta le probabilità di non passare inosservati agli occhi di un'etichetta, o di riviste e webzine specializzate. Insomma, oggi come ieri, devi essere “bravo”: bravo a venderti, a farti notare. I social network hanno reso più facile le cose a chi è “bravo”, rivoluzionando anche la relazione artista-fan. I fan ormai hanno tutte le opportunità di raggiungere l'artista, grande o piccolo che sia. Vedersi accettata un’amicizia su Facebook dal proprio beniamino o commentare una LiveStory di Instagram e vedersi rispondere è cosa quasi quotidiana. Tra Facebook e Instagram, è facile entrare nella vita personale delle grandi star del rock. Ed anche questo, direbbe qualcuno, è entertainment.  

 
Se il rock dei grandi si sta dissolvendo con la morte di molti artisti o con il ritiro di altri, chi provvederà a darci del rock altrettanto grande? Il destino è l'estinzione o stiamo solo esagerando? 

 
Dall'altra parte potremmo pensare che il rock stia diventando un genere di nicchia. E per argomentare la cosa potremmo tirare in ballo il piano economico e analizzare alcuni dati concreti.  E' palese che il mercato degli strumenti "rock" stia vivendo una crisi di settore. Da almeno dieci anni, si moltiplicano le inchieste sul calo vertiginoso di vendite di chitarre e amplificatori dei marchi che hanno fatto la storia del genere, primo fra tutti Gibson, che da mesi cerca di salvarsi dalla bancarotta. Che significa questo? Che il rock è sempre meno protagonista della musica odierna? Questo dato direbbe di sì. A sostenere la cosa ci sono poi non solo i giornalisti di settore o (magari) i sostenitori di altri generi, ma rockstar di prima grandezza come Eric Clapton, Liam Gallagher e Jack White. Comunque stiano le cose, il fatto che la musica attuale non ruota più attorno alle chitarre come un tempo è certo. Complice sicuramente l'attenzione alla musica prodotta digitalmente che ha da tempo preso il sopravvento su quella analogica, mettendo gradualmente ai margini gli strumenti analogici anche nella tradizionale rock band; basti pensare, nel corso della loro sfolgorante carriera, all'evoluzione dei Radiohead dall'elettrico all'elettronico, o in Italia alla parabola dei Subsonica. Se il rock, come sembra, sta diventando di nicchia, a relegarvelo è stata quasi di sicuro l'evoluzione dell'elettronica che ha dilagato anche nel rock. Tornando ai Radiohead, sono stati loro - non a caso - il più clamoroso esempio di rottura prima con le etichette discografiche, poi con la distribuzione tradizionale (ricordiamo il caso dell'album “In Rainbow” in download gratuito sulla piattaforma i-Tunes una decina di anni fa, in aperta provocazione alla casa discografica).
 
 
Si è parlato tanto anche della crisi che il digitale ha portato al mondo della musica. Ma dove sta la falla nell’avvento della musica digitale? Sicuramente grande responsabilità è da imputare al mercato discografico che non ha riconosciuto e valutato correttamente - volutamente o meno, per orgoglio o per eccessivo senso di protezione - le potenzialità della novità. Tuttavia, recentemente la "crisi" sembra essere stata superata: con l'avvento di Spotify, Amazon, Google e compagnia cantante, artisti ed etichette hanno trovato un modo fruttuoso affinchè il digitale potesse essere un altro concreto canale di guadagno. In più, la tendenza degli ultimi anni ha visto emergere accanto alla fruizione digitale un nostalgico e felice ritorno al vinile e al giradischi, supporti che hanno superato anche il luccicante CD. Il motivo? La qualità della musica. E' solo questo? No. Il vinile assicura un'attenzione al gesto dell'ascoltare musica, che recentemente è stata riscoperta e rivalutata. Si apre ora una biforcazione di riflessioni. Il digitale, insieme e più ancora dei modi di produzione, ha cambiato i modi di fruizione della musica; oggi - in linea generale - si “sente” quotidianamente la musica sullo smartphone: mentre si va a lavoro, o a fare la spesa, o durante l’allenamento in palestra. Ma dobbiamo porci un'altra domanda: abbiamo più tempo di “ascoltare” la musica? Quanti di noi, al giorno, si prendono del tempo per “ascoltare” un disco? Quanto di noi si prendono la briga di cambiare lato del vinile, di dare "attenzione" alla musica? Possiamo dirlo con il sorriso sulle labbra: oggi sicuramente più mani di ieri. C'è stata una concreta riscoperta a favore dell'attenzione alla musica e questo non fa altro che ben sperare.
 
 
radioheadspeciale2018
 
 
Dietro alla patologia del rock, però, sembra affacciarsi un'altra e ben più profonda crisi: quella della socialità umana. Qui ci permettiamo di ampliare un po' il campo della discussione; sin dalla sua remotissima origine, la musica è anzitutto e prima di ogni altra cosa rito di socialità. Lo è oggi come lo era millenni fa. Non lo diciamo noi, ma decenni di studi di antropologia e sociologia. Se l'uomo è animale sociale, la musica è stata il primo collante, l'irrinunciabile malta di ogni organizzazione umana e di ogni possibile socialità ben prima delle leggi. Ma l'uomo è ancora animale sociale? 
 
 
Sempre meno, verrebbe da dire. Non ci va più come un tempo di stare assieme concretamente, Woodstock è passata decisamente di moda. Ci va tanto di stare insieme, ma attraverso uno smartphone o un pc. E anche quando si genera l'opportunità di condivisione, preferiamo sempre non esporci mai con la nostra faccia ma con la fotocamera del nostro cellulare. Chi suona o ascolta un genere oggi ha magari una rete di contatti globali, è inserito in chat, forum, blog sulle sue band preferite su cui scambia opinioni e discute notizie con persone in ogni angolo del globo, ma tutto a comparti talmente stagni che a volte viene da rimpiangere le risse di strada anni '80 tra metallari, punk e dark.  Non ci si incontra né scontra quasi più, si fa circuito, ci si specializza e a volte radicalizza. Non stiamo qui a sconfinare nella filosofia o nella sociologia (rimandiamo per questo a “Realismo Capitalista” di Mark Fisher), ma la crisi del rock emerge come sintomo tra gli altri della più profonda crisi delle nostre relazioni, sempre più nevrotiche, problematiche e metafisiche. Sembra che l'umanità (e quindi l'arte, la cultura e tra queste, quella rock) stia gettando sempre più la spugna rispetto all'opportunità di coltivare rapporti umani duraturi, con tutte le difficoltà che per loro natura comportano, ma con una perdita non compensabile. La perdita infatti siamo proprio noi, il nostro stare e sentire insieme, la comunità e il senso di ciò che chiamiamo “mondo”, “realtà”.  Stringere un patto è sempre rischioso ma questo è una band anzitutto: una comunità, un patto tra individui che si allarga a volte fino ai seguaci, ai fan. Cinque rockers contro tutto il mondo.  Ma è ancora un modello plausibile?



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