“Romaaaa” (cit. Helmuth Lehner)
Appuntamento speciale di settembre al Traffic Live Club di Roma, venue che ospita la seconda delle tre tappe del “The Devils Italy Tour 2024”, carrozzone funesto con a bordo Belphegor, Malevolent Creation e Confess. Peccato per la defezione improvvisa dei deathster viennesi Monument Of Misanthropy, di cui, disgraziatamente, non abbiamo potuto gustare le gesta, in particolare quelle del serial killer necrofilo protagonista del concept album dell’agosto scorso “Vile Postmortem Irrumatio”. In ogni caso, la sete di sangue e di empietà è stata abbastanza placata, benché non se ne trangugi mai abbastanza.
Confess
Noti più per la condanna ricevuta dal Tribunale rivoluzionario islamico di Teheran che per il livello qualitativo della discografia, i Confess aprono, in anticipo sulla tabella di marcia, il gala capitolino, sprigionando un’enorme carica di energia, capace di sopperire a una sala davvero poco affollata che, alla fine della kermesse, raggiungerà buoni numeri senza far registrare il sold out, correi il venerdì lavorativo e un bill dalla consistenza fragile per due terzi, benché con motivazioni discordi. A ogni modo, la formazione attualmente iraniano-norvegese, dal 2018 di stanza ad Harstad per sfuggire al carcere e alle frustrate, profonde, on stage, un impegno encomiabile, articolando il proprio basico groove/thrash metal attraverso una ferocia d’approccio quasi death, giusto per rimanere nel tema musicale egemone della serata e conquistare la benevolenza degli ancora radi avventori. Con brani dai testi di forte critica politica e religiosa nei confronti della cultura d’origine, il quartetto riesce a fornire una performance solida, al netto di un suono leggermente impastato e di una dinamica sin troppo monolitica rispetto al crossover proposto, un elemento, quest’ultimo, che forse risente dell’assenza sul palco di Arash Ilkhani e dei suoi samples, responsabili della patina nu dei lavori in studio. Sono soprattutto i cavalli di battaglia “Evin” e “Eat What Your Kill” a colpire il bersaglio e a creare le basi per dei mosh che, nel prosieguo dello show, non risulteranno poi tanto cospicui come da pronostico, né così tremendamente selvaggi. Un discreto appetizer di mezz’ora, in grado di dissipare, una volta esauritosi, le inconsce paure di un attentato in stile Bataclan.
Setlist
01. I’m Your God Now
02. Unfilial Son
03. Evin
04. Phoenix Rises
05. Megalodon
06. Eat What Your Kill
Malevolent Creation
Entità fondamentale per la genesi e lo sviluppo del metallo della morte a stelle e strisce, i Malevolent Creation hanno affrontato, nel corso di una lunga e complessa carriera, schizofrenici cambi in seno alla line-up, pregiudicando il loro stato di grazia degli albori. Eppure, nonostante le difficoltà e dei full-length molto interlocutori, il monicker è riuscito a salvaguardare un decoro e una dignità ammirevoli, anche a onta di lutti e brusche abdicazioni. Prima il decesso dello straordinario singer Brett Hoffmann, poi l’abbandono della nave da parte del bassista Jason Blachowicz, lasciarono come unico superstite il compositore, chitarrista e fondatore Phil Fasciana, che, complici le precarie condizioni di salute a causa delle quali non partecipò al controverso tour per il trentennale di “Retribution” (1992), oggi sembra la pallida ombra dell’uomo ironico ed esuberante di una volta. Una considerazione, purtroppo, suffragata dalla data dell’Urbe, durante la quale il biondo chitarrista, con bandana d’ordinanza modello e bermuda cachi, si ricava un cantuccio sull’assito dove poter suonare, lontano, fisicamente e mentalmente, dagli altri membri del combo. Formazione, ça va sans dire, diversa rispetto allo scorso e dimesso lavoro in studio “The 13th Beast” (2019), e che vede all’opera Jesse Jolly e Ron Parmer, rispettivamente bassista e batterista dei Blightmass, e Deron Miller alla voce e all’ascia ritmica. La performance di un’ora molto scarsa, che denota un gruppo – o presunto tale – ancora in fase di rodaggio, riesce, tuttavia, a trascinare il crescente uditorio principalmente per il pregio eccezionale dei pezzi scelti, incastonati tra brevi break necessari ai musicisti per tergersi il sudore dalla pelle, con il drummer protagonista, causa l’eccessivo calore, di un progressivo spogliarello toracico. L’atavico retaggio thrash e i successivi addenda di stampo brutal vengono filologicamente declinati per mezzo di una selezione da urlo emotivo: “Multiple Stab Wounds”, “Premature Burial”, Blood Brothers”, “Eve Of Apocalypse” si muovono stoiche, asciutte, chirurgiche, disegnando paesaggi urbani violento e crudele, madidi di assassinii e corpi di prostitute che marciscono nei bidoni dell’umido, anche se il timido e uniforme growling del singer non paga giustizia all’efferatezza sonora e lirica delle tracce. Certo, il ritorno di Phil nella nazione natia e le sue schive e mute interazioni con la torma procurano un immenso piacere, ma la creatura malvagia da lui costruita e da lui spesso dispoticamente disfatta pare la tribute band di sé stessa: aspettiamo fiduciosi che in studio possa concretizzarsi un nuovo miracolo, magari aggiornando la dottrina dei “The Ten Commandments” (1991).
Setlist
01. Alliance Or War
02. Dominated Resurgency
03. Coronation Of Our Domain
04.Multiple Stab Wounds
05. Homicidal Rent
06. Infernal Desire
07. Living In Fear
08. Kill Zone
09. Premature Burial
10. Manic Demise
11. Blood Brothers
12. Eve Of Apocalypse
Belphegor
La pausa piuttosto lunga serve a disporre, a entrambi i lati dell’asta del microfono centrale, un paio di doppieri sormontati da altrettanti teschi caprini provvisti di corna; nel frattempo, si accendono luci blu cobalto che, insieme a un’interminabile intro dal taglio dark ambient, preparano il campo alla macelleria rituale di lì a poco prossima alla detonazione. Un’attesa, a tratti anche sfibrante per la prolissità del soundcheck e della mise en place, che termina allorché la stazza minacciosa del prode discepolo di Satana Helmuth Lehner appare monumentale sul tavolato, suscitando i gridolini acuti della platea, neanche ci si trovasse al cospetto di un Cesare Cremonini dell’estremo che, dopo aver appeso, sulle cime delle ossee piccarde, i propri lordi mutandoni per mostrarne le sfumature di colore, li scagli sulla folla in ludibrio con la medesima effervescenza di una neosposa intenta, post cerimonia di nozze, al lancio del bouquet di fiori. Il face painting degli austriaci riproduce delle lesioni rosso vermiglio su dei volti cadaverici e dalle occhiaie di pece, un make-up ormai abituale e assai vicino, curiosamente, al trucco e parrucco del primo Chad Gray dei Mudvayne, impressione che, probabilmente, dovrebbe spingere il mastermind a variare qualcosa riguardo agli artifici scenici. Ma si sa, i raduni dei Belphegor seguono, con rare eccezioni, i medesimi – e talvolta pacchiani – cliché estetici e visivi, funzionando proprio in virtù di una prevedibilità e di uno schematismo nella quale il pubblico possa riconoscersi e spassarsela, cosicché le differenze tra i concerti dei tour, finanche a distanza di lustri, si riducono pressoché al minimo.
Con lo storico bass player Serpenth in mutua per malattia e sostituito dal turnista Julian David Guillen, i salisburghesi, che dall’epoca di “The Last Supper” (1995) e “Blutsabbath” (1997), hanno imparato bene sia l’inglese sia a strimpellare, dal punto di vista musicale non sbagliano una mossa, proponendo un blackened death metal tanto aspro quanto maleficamente espressivo. Nell’ultimo periodo, però, a partire da “Conjuring The Dead” (2014), pur nel contesto di un trademark intriso di grezza e ferale teatralità, la band si è aperta, in “Totenritual“ (2017) e “The Devils“ (2022), a toniche sfumature arabeggianti ed epico-sinfoniche, diventando una sorta di versione garage dei polacchi Behemoth. Giù il cappello, comunque, dinanzi a una putiferio orgiastico pregno di invocazioni blasfeme, immaginario bondage da sexploitation e fascino per l’orrido, viscido campionario esaltato da una setlist che, malgrado non trascuri i classici, dalla cattiveria spietata di “Stigma Diabolicum” alla tetragona compattezza di “Lucifer Incestus”, preferisce concentrarsi sulla produzione recente, sciorinando atmosferiche sarabande händeliane (“The Procession”), cantabili orazioni demoniache (“Baphomet), bieche liturgie sataniche (“Virtus Asinaria – Prayer), sontuose cadenze di morte (“The Devils”), sganassoni criminali (Totentanz – Dance Macabre). Il frontman, fra sorsi d’acqua e assaggi di Jack Daniel’s, alterna preghiere e genuflessioni profanatorie con mimica opportuna e furbo mestiere, toccando l’acme interpretativo quando si presenta alla calca con un cranio ovino in fiamme issato a mo’ di trofeo, azione sacrilega che sblocca, nel cervello collettivo del locale, l’ingegnoso e prepuberale meccanismo delle imprecazioni anticristiane. E mentre il tecnico della band controlla da remoto il mixer, modificando i parametri in tempo reale, dettaglio che testimonia la certosina cura degli austriaci per la restituzione sonora, invero perfetta, l’esibizione si chiude, a grande richiesta, con un encore, ovvero “Gasmask Terror”. I quattro moschettieri diabolici, a mezzanotte, si accommiatano regalando plettri, bacchette e ammennicoli vari: dal crogiolo dell’Inferno, d’altronde, i cuori d’oro zecchino spuntano come funghi velenosi.
Setlist
01. The Procession
02. Baohomet
03. The Devil’s Son
04.Sancut Diabolus Confidimus
05. Belphegor – Hell’s Ambassador
06. Stigma Diabolicum
07. Pactum In Aeternum
08. Lucifer Infestus
09. Virtus Asinaria – Prayer
10. The Devils
11. Der Lichtbringer
12. Totentanz – Dance Macabre
13. Gasmask Terror