This is the end of your life
Shocking how long you thought to survive
E se nominassi “I Fantastici 4 e Silver Surfer”? Certo, nostalgia a parte per chi l’ha vissuto da bambino, non è un bel ricordo per nessuno; tuttavia, forse ricorderete che oltre ai tangibili Dottor Destino e Silver Surfer, c’era un altro villain nel film, ben più temibile: Galactus. Il quale, a differenza dei fumetti, in questa trasposizione cinematografica era un nuvolone sgravato che letteralmente inghiottiva i mondi. Insomma, non era una bella roba da vedere ma si sapeva che era potentissimo.
Mi piace pensare in questi termini al nuovo album dei Cursive. Non solo per il collegamento scontato con il titolo, “Devourer”, bensì per la doppietta bruttezza estetica-potenza sonora. La prima si riferisce ovviamente alla copertina, che per coincidenza include un nuvolone colorato – qui nella forma di uragano – e un piccolo paesaggio disegnato in bianco e nero. In tutta onestà, ci aspettavamo qualcosa di più dal loro decimo disco, e per nostra fortuna, l’artwork è uno dei pochissimi difetti di quest’opera.
Il gruppo di Omaha, Nebraska torna 5 anni dopo “Get Fixed”: oscuro, complesso, di difficile ascolto per i non seguaci della band. Non siamo qui per descrivere una virata pop fatta di arcobaleni e occhiali da sole, certo che no, ma possiamo dire che questa volta il risultato è meno pesante, e questa maggior accessibilità è stato raggiunta senza rinunciare alla complessità di composizione, arrangiamenti e temi trattati.
Si preme play e la tensione è già alle stelle in “Botch Job”: lo strumentale è frenetico, continuamente in movimento, con una batteria che non sembra voler abbassare il tiro e un violoncello che sottolinea la solennità del momento. La voce di Tim Kasher è ciò che marca il pericolo imminente, quasi come un oracolo che tenta di salvare l’umanità sull’orlo del baratro, prima che arrivi il divoratore. Il frontman è assai credibile nei panni del predicatore pazzo (o visionario?): la sua non è una bella voce, è figlio legittimo del midwest emo e del post-hardcore che in quegli anni si diffondeva negli Stati Uniti, è molto bravo nel comunicare disagio e sensazioni laceranti a modo suo. “What Do We Do Now” e “Consumers” sono solo esempi delle sue considerazioni su problemi sociali quali povertà e ambientalismo, in cui cinismo ed ironia si sposano con frasi come “One gigantic beached whale desiccates on the neighbor’s curb/Guess they threw her away/Could’ve waited ’til garbage day” e “I saw our future/In the aisles of Walmart”. Questo dualismo permane anche in temi più personali, come l’alcolismo di “Bloodbather”:
“Once in a while
The bottle hits me too hard
And just like a child
I tear my conscience apart
I should hold my Jiminy Cricket dear
Still, I dream of choking him in my bile
Once in a while”
E che dire dell’aspetto musicale? Come abbiamo già accennato, i Cursive sono complessi, ricchi di sfumature. Indie rock, post-hardcore, emo, sono tutti elementi che il quartetto diventato sestetto ha masticato – anzi, divorato – negli anni e riproposto a proprio modo, piazzandosi sempre più come un’offerta unica di questa nicchia musicale. La loro complessità passa dal progressive misto Alice Cooper di “What the Fuck” (titolo emblematico) al rock elettronico à la Coldplay di “Dark Star”. In mezzo a questi estremi? Un mondo, il loro.
La loro formazione permette di giocare molto coi suoni. Megan Siebe, il cui violoncello non è sicuramente facile da inserire in contesti non classici, sa sempre dove stare e non è mai fuori posto. In “Consumers” e “The Age of Impotence” sancisce l’imponenza, mentre in “Dead End Days” collabora con Patrick Newbery a creare il brano sicuramente più orecchiabile del disco. Newbery invece è il loro jolly: tastiere (“Dead End Days”, “Imposturing”), tromba (“Botch Job”, “Bloodbather”), perfino il sitar all’occorrenza (“The Avalanche of Our Demise”).
La batteria – affidata al fondatore Clint Schnase e al tournista/sessionman Pat Oakes – e il basso di Matt Maginn apportano solidità ma al tempo stesso non implicano restrizioni agli altri: è impossibile non sentirsi travolti da una valanga in “Rookie”, che approfitta della doppia presenza dietro le pelli e sfrutta la potenza di due batterie contemporaneamente, creando un effetto psichedelico. Per non parlare della conclusione di “The Loss”, in cui un ritmo molto semplice e cadenzato, quasi da ballo, implode su se stesso e si annulla.
Anche le chitarre, suonate da Kasher e Ted Stevens, regalano effetti singolari: da evidenziare tutti i contorni noise di “Bloodbather” e “Up and Away”, che in quest’ultima creano una bellissima atmosfera weezeriana. Nota di merito finale va a Marc Jacob Hudson, la cui produzione si rivela sempre azzeccata per un gruppo punk.
Se questa fosse la colonna sonora della loro digestione, ci faremmo divorare volentieri dal nuvolone sgravato dei Cursive. Con gli occhi chiusi però.
Tracklist
01. Botch Job
02. Up and Away
03. The Avalanche of Our Demise
04. Imposturing
05. Rookie
06. Dead End Days
07. What the Fuck
08. Bloodbather
09. Dark Star
10. Consumers
11. What Do We Do Now
12. The Age of Impotence
13. The Loss