You, you are so special
You have the talent to make me feel like dirt
And you, you use your talent to dig me under
And cover me with dirt

Dissipazione, ossia dispersione, dissolvimento. Un semplice termine che descrive un’opera di disgregazione, un lavoro di demolizione che potrebbe essere istantaneo, oppure inesorabilmente lento, logorante, doloroso. Ma a prescindere dalla durata, tutto è racchiuso in quelle dodici, tremende lettere. Lo descriveva, in termini catastrofici, l’abilissimo Guido Morselli in “Dissipatio H.G.”, un saggio scritto poco prima della sua morte – avvenuta nel ’73 per suicidio -, che narrava le azioni di un uomo talmente desideroso di distaccarsi dal genere umano, da spingersi a compiere l’insano gesto. Proprio lì, nel freddo istante che lo separava dalla morte, il protagonista ci ripensa, fa ritorno a casa per poi scoprire, il giorno seguente, che tutta l’umanità attorno a lui era scomparsa, tutto quello che lo aveva sempre disgustato era realmente svanito, dissolto, lasciandolo in vita nel silenzio più assordante, col roccioso fardello della solitudine a gravare, come un incudine, sulle spalle.

Un racconto asfissiante, disarmante, che a molti potrebbe sembrare assolutamente fuori contesto, ma in cui abbiamo ritrovato le chiare impronte e i tormentati graffi di una malinconia e di un’angoscia dettate dall’impossibilità di tornare indietro, di rimediare, sentimenti velenosi che iniziavano a divorare le interiora psichiche di Layne Staley nel lontano 1992, anno di uscita della magnum opus degli Alice In Chains: “Dirt” non è altro che l’inizio dell’inesorabile dissipazione di Layne Staley, colui che volle assaporare l’inferno, senza più riuscire a riemergere in superficie.

Sono trame nero pece, quelle che si intrecciano nella storia e nello sviluppo del secondo album in studio della band di Seattle, una sulfurea discesa in un abisso senza ritagli di luce, una voragine irreparabile, causata dalla droga, dalla depressione, ma anche dall’amore e dall’estrema, candida, sensibilità: cronache di una fragilità insita all’interno di ogni essere umano, ma che nel caso di Layne Staley superava il limite consentito, conducendolo, mano nella mano, verso un diabolico accordo con l’eroina e verso la conseguente, inevitabile, frattura con la vita; un processo, quest’ultimo, reso spaventosamente tangibile nel capolavoro in analisi per poi trovare la sua buia e triste conclusione nel funereo self-titled di tre anni dopo.

Photo Credits: Rocky Schenck

“Dirt” dirama le sue radici nel terreno proprio nel cruciale crocevia della carriera degli Alice In Chains: dopo l’enorme successo del debut “Facelift” (1990) – ai tempi disco d’oro negli USA – e dopo la pubblicazione dell’EP “Sap” (1992), reduce anch’esso da un ottimo responso commerciale, considerando anche il fatto che la sua uscita nei negozi avvenne senza alcun tipo di promozione, i Nostri si ritrovano addosso gli artigli di una fama inaspettata e spropositata, complice anche l’incontrollata esondazione a livello globale del grunge, movimento capace di colonizzare tutti i riflettori, puntandoli ferocemente sui figli dannati della nebbiosa Seattle, tra tutti Soundgarden, Nirvana, Pearl Jam e, per finire, gli Alice In Chains, che per la registrazione di “Dirt” decidono di ritrovarsi all’Eldorado Recording Studio di Los Angeles, proprio durante i violenti scontri scaturiti dal caso Rodney King. Un’atmosfera spaventosa, immersa nel grigiume della paura e della violenza, che impregnava l’aria di quell’angoscia che permea ogni antro dell’album, divenendo un fattore importante, se non fondamentale, per la plasmazione dell’aura tenebrosa che gravita attorno al platter.

“Dirt” non è un disco black metal, ma si riveste di un’inquietudine che scuote, che fa paura nonostante la sua apparente innocuità, perchè parla di realtà, annienta qualsiasi tipo di finzione o artificio, per rivelare al mondo il corpo spolpato di una band pronta ad essere divorata dal dolore delle scelte sbagliate, urlato a squarciagola dalle iconiche grida che aprono, come rintocchi di campane in una fosca giornata di pioggia, la devastante opener “Them Bones”: Jerry Cantrell prende la mira e inizia l’operazione di squarcio della carcassa, mette a nudo le ferite dell’anima in 7/8, con quel riff stoppato da manuale del rock che ci dà la prima spinta giù per il precipizio, dove la voce multiforme di Layne Staley ci gira attorno, toccando disorsioni alte e cavernosi mugugni, di fatto compiendo il passo iniziale nell’acuta operazione di estraniamento dell’ascoltatore.

Non è affatto sbagliato affermare che “Dirt” sia un disco incentrato sul frontman, anzi, è il più crudo ritratto di una condizione, il dipinto orrorifico di un uomo governato dalla consapevolezza di aver bisogno di aiuto, colpito alla nuca dall’incombente mostro dell’eroina. Un’autoanalisi lucida e spietata che si sviluppa lungo un claustrofobico corridoio suddiviso in più fasi, la prima, quella del piacere, messa nero su bianco tra le cadenzate righe di “Junkhead”, tagliente testimonianza di un tossico assuefatto dall’intensa (ed apparente) esperienza orgasmica generata dall’eroina, ricucita su un main riff dalla possente presenza e su un refrain illuminante; la seconda, quella della consapevolezza, è forse la fase più critica dell’intero pellegrinaggio, ovvero quella in cui gli ologrammi libidinosi si strappano di dosso le dilettevoli vesti per rivelarsi nella loro reale natura di demoni spietati.

Qui il sound si incupisce ancor di più, i testi iniziano a rifugiarsi in riflessioni personali pervase da un timore sincero e massacrante: sui nervosi colpi di batteria di Sean Kinney si erge la barcollante danza di “Sickman”, primo stralcio di presa di coscienza di Layne Staley, che fa fluttuare la voce tra gli scorbutici cambi di ritmo della traccia; più ermetiche, invece, sono le lyrics del singolo più celebre dell’album: “Would?”, doloroso tributo al compianto Andrew Wood dei Mother Love Bone, vanta poche, profonde parole, dominate dal lento incedere di emozioni che odorano di premonizione, trainate dallo storico, meraviglioso giro di basso, tirato fuori dal cappello magico da Mike Starr: “Know me, broken by my master”, sussurra Cantrell, che in “Dirt” fa un ulteriore passo in avanti, affiancandosi all’amico frontman per sperimentare un’alchimia vocale senza precedenti (e ancora oggi impareggiata), frutto di una complicità, oltre che personale, tecnicamente perfetta. La dolce cupezza che governa le corde vocali del chitarrista, incontra la roca energia e l’imprevedibile timbrica del cantante, un matrimonio sonoro difficile da spiegare, se non provandone direttamente gli effetti sulla propria pelle.

Photo Credits: Rocky Schenck

Varchiamo, infine, i confini della terza fase, ossia quella dell’accettazione, il momento in cui ci si rende conto che tornare indietro è praticamente impossibile: le chitarre si inacidiscono, la title track ci trascina in un desertico cammino, dominato dalle litanie di Cantrell che appannano la vista al frontman, completamente in balìa dei suoi pensieri. Ma è solo la punta di un iceberg che nasconde una massiccia corporatura plumbea, quelli che erano sogni, ora si sono trasformati in tremendi incubi, narrati nell’affilato e chirurgico manoscritto di “God Smack” e nella marcia a tinte doom di “Hate To Feel”, in cui il frontman vaga spaesato nelle strofe per poi incanalare la voce nel rantolo infernale del pre-chorus: “Stare at me with empty eyes and point your words at me, mirror on the wall will show you what you’re scared to see” canta indemoniato, per poi esplodere di rabbia nel refrain; “Angry Chair” solleva tremolante la bandiera bianca di un tossico arrivato alla piena coscienza della propria condizione, un manifesto nero di estrema disperazione, dove il corpo si lascia cadere nel baratro scavato dallo straniante arpeggio iniziale – scritto da Staley stesso – e viene trascinato sempre più a fondo dai rintocchi secchi di batteria e dai colpi mortali scagliati dall’axeman di Tacoma.

Attenzione, però, ad inglobare “Dirt” in un unico calderone tematico, poichè tanto è grande ed immensa la sua multiforme opera di tributo e celebrazione alla vita ed alla sua inesorabile antagonista: gli Alice In Chains costruiscono un’impalcatura realistica, all’apparenza dura e feroce, ma esattamente coerente con l’implacabile delicatezza che riveste il ciclo vitale. Dall’inno alla morte della claudicante “Rain When I Die”, un caleidoscopio di suoni distorto, rigirato come una trottola da un ubriacante giro di basso in apertura, legato allo sfacciato wah della sei corde, e rifinito dal fiorido ritornello in crescendo, si passa per l’energica dedica di “Rooster”, indirizzata al padre di Cantrell, che germoglia inizialmente con calma, poi con fermezza, come una marcia militare, per commemorare le indelebili cicatrici psicologiche della guerra.

E per finire, non poteva che mancare lui, l’amore, quello lacerante, quello annichilente, quello che ustiona il cuore come un marchio a fuoco sulla pelle viva, quello presentato dal magnifico arpeggio di “Down In A Hole”, un resoconto doloroso, ma pieno di passione, che Cantrell dona all’ex fidanzata Courtney Clarke, protagonista della storia d’amore più importante della sua vita. Qui, in questo pezzo, si concentra la totalità degli Alice In Chains, la sensibilità, la ruvidezza, il meraviglioso dualismo vocale, il songwriting inarrivabile. “I’d like to fly, but my wings have been so denied”, basterebbe questa linea per riassumere l’inestimabile valore di un album mastodontico e di una band imprescindibile.

Un’odissea moderna, la più veritiera trasposizione in musica del baratro della depressione e della droga. Mai nessuno si era spinto a tanto, mai nessuno era riuscito a tramutare in suono (a tali livelli) l’incubo della propria vita, ed è proprio per questo che “Dirt” rimane uno dei dischi fondamentali non solo dell’epopea grunge, ma dell’intera storia della musica. Possiamo osservare da fuori l’anima sbriciolata di un junkhead, tastarne il malessere, ascoltarne la dannazione, o, nel peggiore dei casi, possiamo ritrovare noi stessi, guardarci allo specchio, trovare la forza di alzare la mano, di dire: “sto affogando, salvatemi”.

“Dirt” è un capolavoro senza tempo, di quelli che si scavano autonomamente un angoletto nascosto nei meandri del cuore, è la maestosa cronaca del decadimento di uno dei più grandi frontman della storia, è la prova inconfutabile del raggiungimento della perfezione musicale degli Alice In Chains. “Dirt”, a trent’anni di distanza, rimane la colonna portante nella vita di tanti di noi. Ed è forse questa la cosa più importante.

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