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Dream Theater – A View From The Top Of The World

Bastano sette canzoni per confermarsi giganti del progressive metal? Se il nome della band è Dream Theater, la risposta non può che essere affermativa. A distanza di due anni dall’ultimo lavoro in studio (e con una pandemia in mezzo) il quintetto di Boston torna con “A View From The Top Of The World”, sette brani della durata complessiva di settanta minuti, una media di 10 minuti canzone. Solo i numeri basterebbero per rendere l’idea dell’immenso sforzo compiuto a livello di songwriting e produzione, dove vediamo impegnato il frontman e chitarrista John Petrucci coadiuvato dal produttore di metallo per eccellenza Andy Sneap (Judas Priest, Testament e molti altri).

Petrucci e soci prendono le distanze dalla forma canzone tipicamente AOR che in “Distance Over Time” si avvicinava al collasso e tornano alle origini con un formato progressive-melodico sicuramente più congeniale. Se da un lato le lunghe parti strumentali, perfettamente scritte e suonate, dimostrano il buono stato di salute del quintetto americano, dall’altro il rischio di ripetere sé stessi è dietro l’angolo. E in alcuni brani del nuovo lotto (“Answering The Call”, “Invisible Monster”), il rischio si trasforma in certezza. Anche se il loro quindicesimo album in studio non corregge completamente la stagnazione creativa di cui il gruppo sembra essere preda, i suoi numerosi momenti di opulenza, sia melodicamente che strumentalmente, lo rendono una ricostruzione molto più emozionante e lodevole della formula ormai reiterata.

Mentre il singolo principale – nonché apertura dell’album – “The Alien” possa suonare derivativo agli ascoltatori di vecchia data, le sue varie sfumature e sezioni crescono sul finale e si fanno interessanti. Sì, il quintetto impiega lo stesso tipo di pause ritmiche irregolari e un lavoro di chitarra vertiginosamente veloce già impiegato innumerevoli volte in passato, ma i modi in cui le parti sono collegati da intervalli vibranti e cambiamenti tonali consentono alla melodia di diventare più grande della somma delle sue parti.

Allo stesso modo, “Sleeping Giant” è un brano notevolmente lunatico e sinfonico, con lievi tocchi di Yes e Rush che ripescano l’attitudine vintage del gruppo applicata a uno stile più moderno. Quindi, il penultimo “Awaken The Master” fonde magistralmente pesantezza imponente e leggerezza vivace conferendo così un effetto talmente grande da poter essere considerata la progenie perduta da tempo di “Train of Thought” e “Octavarium”.

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Ma più grande trionfo di “A View From The Top Of The World” è il juggernaut di chiusura, una suite di oltre 21 minuti che dà il nome all’album. Non è uguale a “A Change Of Seasons” o “Six Degrees Of Inner Turbulence”, ma evoca la loro fluidità e il loro fascino molto più di “Illumination Theory” del 2013. A partire dalla miscela standard di timbri metallici frenetici, corni sontuosi e delicati strimpelli di arpa, il primo movimento è grandiosamente travolgente e magnetico, con un ritornello che non può fare a meno di rimanere fisso nella testa.

La vera gemma del pezzo tuttavia è la fase successiva, in cui vengono evocate orecchiabilità ed emozione, mentre LaBrie canta “Tutti i miei istinti naturali / Mi stanno pregando di fermarmi / Ma in qualche modo continuo / Verso la vetta” su una partitura classicamente trascendentale, decorata dal pianoforte di Rudess. Il resto del brano è tutto un cambio di tempi che mostra l’eleganza dei Dream Theater, e alla fine ritrova il suo passo concludendo con una certa tensione iperattiva e catartica che lo cementa come un nuovo classico nell’arsenale della band.

Per quanto riguarda i temi e il titolo, LaBrie chiarisce che “l’intero concept è incentrato sull’idea di spingersi intenzionalmente al limite (come gli amanti del brivido che vivono per la scarica di adrenalina rischiando la vita facendo cose apparentemente impossibili)”. Lungo la strada, toccano anche l’esplorazione interplanetaria, l’ansia paralizzante e “l’abbracciare il tuo lato oscuro così da poter vivere la tua vita in modo più completo”, come scrive Petrucci.

Al di là dei cliché, “A View From The Top Of The World” è certamente il lavoro più solido che il Teatro del Sogno abbia pubblicato nell’ultimo decennio, con picchi di gigantismo e qualche momento meno convincente. Dalla Portnoy-era di “Invisible Monster” al periodo post 2000 della title track, i Dream Theater rivisitano gli highlight della loro carriera e li mescolano con l’esperienza trentennale. Ogni album da “A Dramatic Turn of Events” sembra essere stato una scommessa vincente o un lavoro completamente immemorabile (con preponderanza di quest’ultima categoria). Stavolta il quintetto ha saputo scommettere.

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