La release di “Church Of The Scream”, secondo album degli ScreaMachine, diffuso lo scorso 5 maggio via Frontiers Music, è stata la ghiotta occasione per interloquire con Francesco Bucci, non soltanto fondatore e mente principale del progetto, ma anche ex bassista degli Stormlord, autori, tra gli altri, degli storici “Supreme Art Of War” e “At The Gates Of Utopia”. Il musicista capitolino, protagonista a tutto tondo del metal italiano, ci ha parlato della natura della sua nuova band e dei dettagli del nuovo lavoro, sviscerandone ogni minimo particolare con precisione analitica, dalle influenze sonore ai cambi di line-up, dal songwriting alle collaborazioni, per una chiacchierata davvero interessante e mai banale. Un tripudio di passione per l’heavy metal più classico e genuino.

Ciao Francesco e benvenuto su SpazioRock. Come stai?

Ciao Giovanni, tutto bene, grazie. Sono molto eccitato per la recente pubblicazione di “Church Of The Scream”. Come puoi immaginare, abbiamo passato un bel po’ di tempo a lavorarci sopra e ora siamo in ansiosa attesa di conoscere la reazione degli ascoltatori.

Francesco, sei colui che nel 2017 ha deciso di fondare gli ScreaMachine, una realtà tutta italiana che rappresenta quasi un’eccezione nel roster heavy metal di Frontiers Music. Quando e perché è nata l’idea di formare una  nuova band?

L’idea di ScreaMachine nasce nel novembre del 2017 dalla volontà di confrontarmi con le sonorità che porto nel cuore sin da quando ero un teenager, quelle della musica heavy metal che così tanto mi ha dato e continua a darmi. Ho avuto la fortuna di concretizzare questa esperienza coinvolgendo vecchi amici e musicisti da tempo attivi nella scena romana in band come Airlines Of Terror, Kaledon e Lunarsea, che da subito si sono mostrati sulla mia stessa lunghezza d’onda e hanno contribuito a trasformare ScreaMachine da progetto dai contorni fumosi a vera e propria band pronta a salire sul palco col volume impostato a 11. Nonostante la proposta musicale sia indubbiamente legata a sonorità classic metal che affondano le radici negli anni ‘80, ci tengo a ribadire che ScreaMachine non è una tribute band che vuole limitarsi a una semplice riproposizione di un sound vintage. Al contrario, il progetto è orientato a filtrare queste influenze in una chiave moderna e, soprattutto, contraddistinta da una personalità definita. Siamo intenzionati a sfruttare ogni vantaggio concesso dalla moderna tecnologia per dare vita a un sound classico e fresco al tempo stesso, prendendo il meglio dei due mondi.  D’altronde, di bei dischi registrati negli anni ’80 ce ne sono a bizzeffe, quindi ritengo che non abbia senso, per noi, scimmiottare quel tipo di produzione per perseguire un risultato artificialmente antico: se oggi è possibile far suonare le chitarre più grosse e rumorose che mai, perché non farlo? Lo stesso vale per il songwriting: se le linee guida sono chiare e piuttosto tradizionali, non è detto che le influenze non possano oscillare da uno stile all’altro, attingendo costantemente dall’esperienza musicale che ci portiamo dietro, che nel caso nostro, solo per citare la sfera del rock, va dall’AOR al black metal. Per quanto riguarda l’etichetta, ribadisco il mio plauso a Frontiers per aver scommesso su una band dedita a un genere decisamente fuori moda, e sono felice che questa scommessa li abbia ripagati convincendoli a confermarci per un secondo disco. In ogni caso, Frontiers non è del tutto estranea al nostro genere musicale, avendo avuto sotto contratto i Primal Fear e, ancora oggi, i Rising Steel.

Nel 2021 il vostro debutto omonimo è stata una scarica di adrenalina e acciaio fuso e la cui forza d’impatto è stata davvero dirompente. Come è stato accolto da un pubblico nostrano allo stesso tempo esigente e molto affezionato alle tradizioni, soprattutto in ambito metal?

Grazie per queste splendide parole. Il debutto è stato accolto in maniera straordinaria, superando ogni mia rosea aspettativa. Nel momento in cui eravamo impegnati nella lavorazione, pensavamo solo a creare quella musica che ci sarebbe piaciuto ascoltare, senza avere grandi aspettative rispetto a una eventuale pubblicazione, anche perché eravamo convinti che il genere oramai fosse un po’ troppo di nicchia per trovare supporto discografico. Invece, evidentemente, là fuori c’è ancora un bel po’ di gente che ha voglia di alzare il pugno e farsi esplodere i polmoni al suono del caro, vecchio heavy metal. Questo tipo di accoglienza ci ha responsabilizzato rispetto alla qualità del secondo disco, e onestamente penso che “Church Of the Scream” rappresenti un deciso passo avanti nel sound di ScreaMachine.

Il nuovo “Church Of The Scream” sembra confermare, nell’artwork come a tratti nel sound, molti richiami ai Judas Priest di “Jugulator” e “Demolition”, benché, rispetto al debutto, presenti influenze policrome e una proposta maggiormente personale. A quali elementi sonori si è data più importanza durante il processo compositivo?

Non mi trovo troppo d’accordo sul richiamo a quei due dischi dei Priest. Nonostante la copertina del nostro debutto possa ricordare alla lontana il mostro di “Jugulator”, e la volontà dei Priest, sugli album in questione, di svecchiare un certo tipo di approccio al metal possa trovare qualche assonanza con i nostri propositi, trovo che le nostre influenze siano decisamente più orientate verso, e non solo, i Priest degli anni ‘70 e ’80, specialmente quelli di “Defender Of The Faith” e “Screaming For Vengeance” e, perché no, anche quelli più ammiccanti di “Turbo”. Più in generale, dopo aver inquadrato le sonorità di ScreaMachine col disco di debutto e aver analizzato gli aspetti più convincenti e quelli che ci soddisfacevano di meno, abbiamo preso maggiore coscienza delle nostre possibilità come band e abbiamo deciso di lasciarci andare nell’esplorazione e nella riscoperta delle varie sfaccettature che compongono l’heavy metal. Dire metal, infatti è come dire rock: vuol dire tutto e nulla. Ci siamo avventurati sia nelle sonorità più epiche che contraddistinguono “The Epic Of Defeat” o “Flag Of Damnation”, sia sul versante hard rock rappresentato da “Night Asylum”, sia verso quello più duro di “Church Of The Scream” e di “Pest Case Scenario”, sia mantenendo un approccio classico come in “The Crimson Legacy” e nei brani rimanenti. Il tutto, però, facendo sempre emergere la personalità della band, senza giocare a fare gli imitatori. Io amo molto i dischi con brani eterogenei, in cui ogni canzone ha una propria personalità ben definita, e mi auguro che “Church Of The Scream” dia proprio questa impressione all’ascoltatore.

Rimanendo in ambito estetico, sulla cover ricompare un trionfante The Metal Monster, quello che può essere definito l’Eddie degli ScreaMachine. A chi si deve la creazione di questa nuova mascotte del metallo nostrano?

Sono contento che anche tu sia rimasto colpito dalla nostra mascotte, che effettivamente chiamiamo proprio The Metal Monster. Lui ormai è destinato ad accompagnarci anche per il futuro, dato che rappresenta in maniera perfetta la musica di ScreaMachine ed ormai è un vero e proprio compagno di viaggio. Anzi, cosa dico, il The Metal Monster è proprio il boss a cui dobbiamo rendere conto e che vigila sulla permanenza del giusto tasso di metallo nella musica di ScreaMachine. L’idea, piuttosto generica, è partita da noi ed è stata poi elaborata da Gustavo Sazes, l’artista che si è occupato della copertina del debutto. Ma a mio parere è Stan W. Decker, l’illustratore dietro l’artwork di questo secondo disco, che ha saputo inquadrare perfettamente il personaggio rendendolo “adulto”. Sono certo che in futuro ricorreremo ancora ai suoi servigi e non vedo l’ora di conoscere le nuove avventure del The Metal Monster.

Come hai già accennato in precedenza, quasi ogni musicista ha un curriculum non soltanto di grande rilievo, ma anche estremamente variegato per sonorità. Quanto il vostro background ha contribuito a complicare – o facilitare – la scrittura di “Church Of The Scream”?

In quanto artisti, credo che ogni esperienza che abbiamo passato nella nostra vita, sia musicale che non, abbia contributo in una certa maniera a plasmare la nostra proposta. Non siamo scrittori di musica per professione, non abbiamo questa capacità di astrarci da ciò che produciamo: in un senso o nell’altro, ciò che sentite è sempre parte di noi. C’è poi la volontà di progredire, di tentare nuove strade, di confrontarci con approcci differenti (anche per non rischiare di rimanere bloccati in una noiosa comfort zone), e questo non vuol dire solo compiere chissà quale tipo di esperimento sonoro, ma anche, nel mio caso, riprendere in mano le radici della mia passione per questa musica e filtrarle attraverso l’esperienza personale, appunto, sino a renderle adatte ai tempi moderni. Non esiste, però, solo la sfida con noi stessi, ma anche quella con il nuovo pubblico di riferimento che, giustamente, è chiamato a giudicare la tua proposta e a trovarla più o meno credibile, permettendoti di crescere ancora sia con i complimenti che con le critiche.

Diversamente da “Screamachine”, in questo secondo album, a parte la presenza di Davide “Damna” Moras, di cui parleremo più avanti, il numero degli ospiti è praticamente pari a zero. Una scelta dovuta all’esigenza di concentrarsi esclusivamente sulla band in senso stretto, senza bisogno dell’apporto di musicisti extra? Personalmente, credo che nel primo album lo abbiate fatto anche per destare curiosità nei confronti di una band completamente nuova, può essere?

In realtà, come ti avevo accennato, non speravamo neanche nella pubblicazione del nostro debutto che, invece, abbiamo inteso come una gioioso atto anarchico in cui riversare tutto l’amore per la musica che ci piaceva. Quindi, di certo, non c’era uno studio su come destare curiosità nel pubblico, proprio perché non eravamo sicuri di avere un pubblico. Piuttosto, quando il materiale del disco di debutto ha iniziato a prendere una forma soddisfacente, ci è venuta voglia di compiere un’ulteriore passo e “battezzare” il disco con il contributo di quelli che reputo essere fra i migliori chitarristi nella scena metal italiana, in modo da renderlo ancora più magico e caricarlo di ulteriore valore affettivo. Frontiers, poi, ci ha dato i mezzi per spingerci ancora oltre, offrendosi di metterci in contatto con due “pezzi da novanta” del calibro di Steve Di Giorgio ed Herbie Langhans, per testare un loro interesse riguardo una collaborazione. Quando è arrivato il momento di comporre il secondo album, invece, c’è stata una mutua, per quanto non esplicita decisione di non coinvolgere altri nomi e di presentare al pubblico gli ScreaMachine al 100% delle proprie forze. Si è trattato di un passo necessario che consegue a una maggiore presa di coscienza della band, nonché una decisione ineludibile per evitare di essere identificati con una caratteristica, la presenza di ospiti, che alla lunga avrebbe potuto rappresentare una forzatura per la band. Qui arriviamo al discorso di “The Epic Of Defeat”, un pezzo piuttosto lungo che ho scritto al fine di celebrare la mia passione per le sonorità più epiche del metallo, tenendo bene a mente la lezione di band come Bathory, Falkenbach, Manowar, Manilla Road e anche tutto il filone pagan metal. Di certo, si tratta di un brano particolare, per quanto non troppo sorprendente se si considera il mio passato, che sposta un po’ le coordinate sulle quali finora si è mosso ScreaMachine, e che necessitava della presenza di un interprete straordinario per raggiungere quanto mi ero prefisso. Ma forse vuoi approfondire l’argomento più avanti …

Esattamente. Altra novità importante è stata l’ingresso in formazione, in sostituzione di Alex Mele, di un chitarrista estremamente tecnico e virtuoso come Edoardo Taddei che, a mio parere, è riuscito a dare una freschezza e una fantasia ai brani e agli assoli forse superiori al primo lavoro. In che modo siete entrati in contatto con lui? E si è sentita o meno in studio la differenza generazionale tra lui e voi “vecchietti”?

Edoardo è oramai uno dei guitar hero più esposti non solo a livello italiano, ma anche europeo. Per dirne una, il suo ultimo disco solista vanta un duetto con Jeff Loomis! Conoscevamo già lo stile di Edoardo, anche perché un chitarrista così talentuoso che inizia a frequentare i palchi della tua città fa un bel rumore. Inoltre, Paolo aveva collaborato a una sua release solista in qualità di tastierista, mentre a me era capitato di assistere a una sua esibizione in qualche locale romano, lasciandomi sbalordito per la tecnica e la presenza scenica. Alla luce di ciò, quando Alex Mele ha comunicato che avrebbe dovuto fare un passo indietro per focalizzarsi sui suoi Kaledon, quello di Edoardo è stato il primo nome a venirci in mente. Ci siamo trovati subito in sintonia dato che, dopo poche prove, attesa non solo la sua bravura, ma anche la serietà nel preparare ed eseguire perfettamente i nostri pezzi, abbiamo deciso di formalizzare la collaborazione senza alcuna riserva. Anche dal punto di vista personale, ci troviamo molto bene e non c’è una grande differenza di approccio, anche perché Edoardo da tempo collabora con musicisti di ogni età in contesti professionali. Penso anch’io che il suo sbalorditivo apporto tecnico, focalizzato sulla parte solista, abbia arricchito parecchio il songwriting che, al contrario, rimane appannaggio mio, del chitarrista Paolo Campitelli e di Valerio Caricchio, il nostro cantante, dando una marcia in più alle canzoni del nuovo disco.

Entriamo adesso nel cuore del disco, ponendoti innanzitutto una domanda riguardante le liriche, spesso in secondo piano rispetto alla musica: l’album ha un filo narrativo unico, magari con dei sottotesti che fanno da collante invisibile al tutto, oppure ogni pezzo fa storia a sé?

Riguardo ai testi, l’obiettivo principale prefissato da Valerio era di sostenere nel modo migliore possibile tutti i molti aspetti che l’album mostrava dal punto di vista musicale e creare un vestito adeguato e diverso per ogni singola traccia. Non aveva particolari temi in mente prima del processo di scrittura, ma si è semplicemente tuffato nelle canzoni e ha lasciato che la musica parlasse. Infatti, voleva arricchire i brani con i suoni giusti pronunciati dalla sua bocca, con le parole giuste e con le atmosfere evocate per descriverle. Così, seguendo l’onda di un sound diventato in parte più pesante e oscuro rispetto al primo album, i testi hanno assunto diverse sfumature trattando temi come la guerra, la religione, la filosofia, le lotte interiori dell’essere umano, senza dimenticare qualche momento più leggero, solo per dare un po’ di respiro (d’altronde, noi abbiamo sempre amato giocare un po’ con i cliché del metal, pur senza cadere in un approccio grottesco). Valerio ama usare le parole in modo un po’ criptico per descrivere le cose senza spiegarle chiaramente e o in maniera univoca, e questo contribuisce parecchio alla profondità e al mistero dell’intera proposta lirica.

Musicalmente, dividerei il disco in vari tronconi, partendo dalla prima tranche, ovvero quei brani – e penso a “Occam’s Failure”, “Pest Case Scenario”, “Met(h)adone”, che costituiscono dei veri e propri anthem da sottopalco. Credo che queste canzoni possano funzionare addirittura meglio dal vivo che su disco. Sei d’accordo con questa impressione?

Più che essere d’accordo, me lo auguro! Non suoni questo genere se come fine ultimo non hai quello di riproporre i brani al massimo volume su un palco, sperando di creare un’esperienza unica. Le canzoni che nomini, insieme ai due singoli “The Crimson Legacy” e la title track, rappresentano certamente l’aspetto più sanguigno del nostro sound e, ne sono certo, troveranno la loro dimensione ideale dal vivo.

Passiamo a “Night Asylum” e “Revenge Walker”, che invece, sotto la scorza metallica, rivelano un volto hard rock, tra Alice Cooper e i Mötley Crüe, un po’ com’era successo per “Mistress Of Disaster”. In futuro meditate di approfondire questo aspetto più sleazy?

Bravissimo, sei forse il primo che nota questa particolarità e ti do ragione al 100%. Posso parlare solo per me, ma, oltre alle ovvie influenze provenienti dal metal più intransigente, parte dell’ispirazione del mio songwriting attinge anche dall’hair metal e sound similari, che si tratti della classe dei Dokken, della ruvidità dei Cinderella, dell’impatto di Pretty Boy Floyd e, ovviamente, della lezione di maestri come i Mötley e zio Alice, in particolare dei suoi lavori con Kane Roberts alla chitarra. Si torna al discorso di prima, anche quando si sceglie di rimanere all’interno di un macrogenere musicale come il metal, è interessante esplorarne tutte le sfaccettature per arricchire la proposta e renderla particolare. Nel mio caso, oltre all’impatto e all’epicità di band come Manowar o Maiden e al riffing serrato dei primi Metallica o degli Accept, c’è anche posto per la sguaiatezza e la classe delle band che ho nominato. In conclusione, per rispondere alla tua domanda, sì, voglio portare avanti questa tradizione e piazzare anche in futuro qualche sporadico episodio hard rock, perché penso bilanci meravigliosamente le nostre composizioni più altere. Inoltre, è difficile che arrivino i reggiseni sul palco durante l’esecuzione di una toccante suite epica che parla dell’onore e della sconfitta, quindi lasciamo al pubblico la possibilità di farlo proponendo anche dei momenti all’insegna della spensieratezza.

La produzione è tersa e potente, capace di dare risalto a ciascuno strumento, in particolare al tuo basso, che sentiamo nitidamente sia nello speed terremotante di “The Crimson Legacy”, sia, soprattutto, in “Deflagrator”. Quanto ti sei divertito a suonare tutto l’album, ma specialmente quest’ultimo brano?

Innanzitutto trasmetto i tuoi complimenti al nostro chitarrista Paolo Campitelli, che si è occupato di tutto il processo di registrazione e, soprattutto, del mix e del master. Dal canto mio, sono sempre emozionato quando qualcuno si sofferma sulle partiture di basso. Di certo, non suono lo strumento più evidente nel genere, anche se molti dei maggiori protagonisti di questa musica sono proprio bassisti. Sono incredibilmente soddisfatto di tutte le linee che ho composto per il disco. Quelle di “Deflagrator” sono le più evidenti, ma, a esempio, mi inorgogliscono molto anche le partiture di “The Crimson Legacy”, che hanno un andamento quasi funky, eppure adatto alla matrice del pezzo. Più in generale, non mi considero un bassista particolarmente tecnico, e, se devo darti un mio punto di riferimento oggettivo che prescinda dalle influenze che riguardano i soliti grandi nomi, ti direi Jason Newsted. Ho sempre ammirato il suo stile roccioso, il suono terremotante e la capacità di farsi notare solo al momento opportuno, mettendosi sempre al servizio della canzone e risultando, alla fine, uno dei motori principali dell’assalto ritmico dei Metallica, specialmente nel “The Black Album”. In questa mia scelta, penso che pesi parecchio il mio ruolo di songwriter. Sono, infatti, abituato a considerare prima la canzone e poi la linea di basso e, a parte alcune eccezioni come il riff iniziale di “Deflagrator”, i brani che scrivo originano dalla chitarra. Vedo la linea di basso come uno degli elementi più importanti per l’arrangiamento del pezzo, non come il modo per mostrare al pubblico quanto suono bene. Peraltro, non avrei neanche le capacità tecniche per stupire chissà chi, ma il mio stile punta ad altro e anche ora, a 44 anni suonati, non ho smesso di svilupparlo. Comporre le linee dei pezzi di ScreaMachine mi dà una grandissima soddisfazione perché mi sento parecchio più libero rispetto al passato. Quando dovevo scrivere una linea che andasse bene per i brani di Stormlord, mi trovavo a tenere in considerazione una velocità esecutiva sempre molto alta, che rendeva complessi anche i fraseggi più semplici. Inoltre, le frequenze del mio strumento dovevano coesistere con numerosi layer di orchestre sintetiche, con una doppia cassa continua o con i blast beat e con delle chitarre fortemente ribassate, e questo mi portava verso alcune scelte obbligate per garantire l’intellegibilità della canzone. Ora ho maggiore spazio perché l’approccio è più vicino al rock: le chitarre spesso duettano fra loro e la batteria ha un più ampio spazio dinamico, quindi il basso può assumere una presenza ed una mobilità maggiori.

Andiamo all’approfondimento promesso. “The Epic Of Defeat”, oltre alle ispirazioni che mi hai svelato, possiede una teatralità che mi ricorda quella dei migliori Savatage e, in aggiunta, vede la presenza al microfono del singer degli Elvenking Davide “Damna” Moras. Come è nata questa collaborazione con un cantante la cui band, tra l’altro, ha rilasciato da poco un nuovo e splendido album come “Reader Of The Runes – Rapure”?

Ancora una volta ti ringrazio per i complimenti, per me essere accostato ai Savatage è il miglior complimento immaginabile. Sono un fan accanito di Jon Oliva e compagni e attendo con ansia la reunion appena annunciata, nella speranza che facciano meglio di “Poets And Madmen”, che allo stato è uno degli episodi che gradisco meno nella loro meravigliosa discografia. Per quanto riguarda il nuovo Elvenking, confermo che si tratta di uno splendido album, proprio non riesco a smettere di ascoltarlo in questi giorni! Trovo che in Italia poche band abbiano la loro capacità di scrittura ed un pari gusto per le melodie. Tornando alla collaborazione, io e Davide ci conosciamo da oltre venti anni, abbiamo suonato numerose volte insieme e, nei primi anni del nuovo millennio, ho anche preso parte al suo side project Leprechaun. L’ho sempre considerato come un caro amico e un musicista unico, senza nulla togliere a tutti gli incredibili artisti con cui ho collaborato nel corso degli anni, e ciò che mi ha colpito ai tempi dei Leprechaun è stata la forte sintonia che si è immediatamente creata nonostante il poco tempo passato insieme a jammare. Ho sempre seguito con ammirazione il suo lavoro con gli Elvenking e lui ha dimostrato in più occasioni un grande apprezzamento per quanto ho creato nell’ambito di Stormlord, e questo ci ha spesso portato a prometterci che, prima o poi, avremmo fatto qualcosa insieme. Purtroppo, la lontananza geografica e gli impegni di entrambi hanno sempre impedito di concretizzare questo proposito. Poi, un bel giorno, ho composto “The Epic Of Defeat” e, ascoltando il break centrale di chitarra dal sapore epico e pagano, ho capito che il momento era arrivato.  Peraltro, è la stessa cosa che gli ho scritto su WhatsApp e ho ricevuto un caloroso riscontro, nonostante Davide abbia limitato moltissimo le sue apparizioni su altri progetti e pur essendo in quei giorni impegnato nelle registrazioni del nuovo disco degli Elvenking. Ora questo brano, oltre a rappresentare uno dei miei preferiti del novero, ha assunto per me un ulteriore significato come coronamento di un’amicizia ventennale.

Avete girato anche un paio di video, uno per la title track e l’altro per “The Crimson Legacy”, il primo essenziale, il secondo con un gusto più spiccatamente cinematografico. Ci racconti un po’ il dietro le quinte di entrambi?

Sin dagli albori della band, abbiamo collaborato con Kinorama Studio per la produzione dei nostri video e ormai ci fidiamo di loro a occhi chiusi, soprattutto perché hanno capito perfettamente come vogliamo presentare ScreaMachine nei video e come possono aiutarci per farlo al meglio. Inoltre, i Kinorama hanno una puntualità e una professionalità encomiabile, unita a un entusiasmo che non li porta mai ad accontentarsi di un lavoro appena sufficiente, e questo ben si sposa con le nostre intenzioni bellicose ogni volta che c’è da scatenarsi di fronte ad una videocamera. “The Crimson Legacy” prende spunto un po’ dal filone del precedente video “Borderline”, ma con mezzi superiori e un budget più consistente. Proprio come i clip dei grandi gruppi degli anni ’80, volevamo raccontare una storia, in questo caso influenzata un po’ dalla color di “Stranger Things”, un po’ dalle atmosfere di Stephen King, che non sfigurasse in un film antologico come “Creepshow” (rigorosamente in onda alle 22:30 di un’afosa serata estiva, su Italia 1). Con il video di “Church Of the Scream”, invece, dato il maggiore impatto e complessità del brano, abbiamo preferito focalizzarci sulla performance della band, bandendo tutti i fronzoli ed assaltando frontalmente lo spettatore. Dietro le quinte non ho grandi aneddoti, a parte le risate fatte quando mia moglie si è travestita da suora per le riprese, ma questo perché con Kinorama si lavora in maniera molto serrata e veloce, con un clima disteso, ma estremamente costruttivo, in modo da portare a casa il risultato entro i tempi previsti e nella miglior maniera possibile. Quindi abbiamo cercato di utilizzare ogni secondo disponibile per lavorare sui video, senza mai distrarci troppo, cosa molto semplice quando lavori su qualcosa che ti piace, insieme a gente che stimi.

Francesco, tu sei stato uno dei membri storici degli Stormlord, uno dei gruppi cardine del metal italiano e non solo. C’è qualche vecchio disco che oggi ti lascia perplesso e che registreresti diversamente?

Ti ringrazio per il riconoscimento nei confronti di Stormlord, è sempre bello sentirsi valorizzati anche dopo tutti questi anni. Dopo una militanza iniziata nel 1998, negli ultimi mesi del 2022 la mia strada si è divisa da Stormlord. Rimango molto fiero del lavoro che ho fatto e del contributo, credo piuttosto importante, che ho dato alla discografia di Stormlord. Ancora oggi, rimango basito quando ascolto le testimonianze di quelle persone che sottolineano quanto siano stati importanti nella loro vita alcuni dei brani sui quali ho lavorato. Quando ho preso in mano il basso, nei primi anni ’90, non avrei mai immaginato di provare queste emozioni, e mi sento veramente grato. Per quanto riguarda il songwriting, penso che ogni disco di Stormlord abbia rispecchiato al 100% le capacità che la band aveva a quei tempi e, pertanto, sarebbe sbagliato cambiarne qualcosa. A esempio, quando ho scritto i miei primi brani in “Supreme Art Of War”, avevo una sensibilità artistica diversa da quella attuale, forse più rozza, forse più immediata, forse anche più ispirata, chissà, e anche se oggi difficilmente scriverei alcuni di quei riff, continuo ad apprezzarli perché figli di un periodo ben preciso. Se, invece, si parla della produzione e del suono in generale, sono molto soddisfatto di tutti i dischi da “The Gorgon Cult” in poi, mentre penso che “At The Gates Of Utopia” avrebbe potuto rendere di più con una resa sonora migliore, specialmente per quanto riguarda le chitarre. Del debutto inutile parlarne, la produzione è totalmente sballata, ma questo è parte del suo fascino, non avrebbe senso farlo suonare in maniera diversa.

Sei stato anche redattore di diverse riviste cartacee molto importanti, tra cui Metal Shock e Rock Hard. Cosa ricordi di quegli anni così eccitanti e per certi versi pioneristici? E pensi che, a parte qualche mosca bianca, il tempo delle riviste cartacee sia finito o, come per il mercato dei vinili, ci sia la possibilità in futuro di vederne un ritorno in massa?

Mi sono dedicato all’editoria musicale per più di dieci anni, non solo scrivendo sui blasonati magazine che hai nominato, ma anche impegnandomi nel rutilante mondo delle webzine metal nel loro momento di massima espansione. La musica metal è ed è stata una delle più grandi passioni della mia vita e, quando ho potuto, ho cercato di viverne intensamente ogni aspetto, sia come musicista che come redattore. Come dici tu, ho il ricordo di anni straordinari ed intensi, quando ancora il music business non era alla canna del gas, uscivano dischi incredibili e, soprattutto, avevi a che fare con personaggi ed eventi leggendari. Nel corso della mia “carriera”, con mille virgolette, ho avuto il piacere di scambiare opinioni con gli idoli della mia gioventù come James Hetfield, Kerry King, Steve Harris, King Diamond e Lemmy, giusto per nominarne alcuni, e di recensire album pazzeschi che, poi, hanno creato interi generi. L’approfondimento, la professionalità e la passione che permeava ogni aspetto della creazione di quelle riviste cartacee era qualcosa di difficilmente replicabile, e non è un caso se le firme di quei tempi siano ancora ben presenti nella memoria collettiva dei metallari della penisola. E’ finito il tempo del cartaceo? Credo ci sia sempre spazio per una nicchia di approfondimento qualitativamente elevata, ma il momento in cui sulla scena editoriale italiana erano presenti anche 5/6 riviste dedicate al metal è definitivamente tramontato, anche perché gran parte di quel fabbisogno viene oggi soddisfatto, e gratuitamente, da internet. E, come ci insegna lo streaming per la musica, è difficile tornare indietro quando un prodotto viene offerto gratuitamente. Ritengo giusto che sia rimasto in giro un prodotto editoriale di grande serietà come Rock Hard Italia, capace di soddisfare in maniera completa le necessità del pubblico amante del cartaceo.

Si è parlato, e si parla ancora oggi, di una scena metal italiana, ma forse, a parte quella power di trent’anni fa, non ne abbiamo mai avuta una in senso stretto, anche – ma non solo – a causa di un certo particolarismo che spesso ha impedito alle band di solidarizzare tra loro. Qual è la situazione attuale, anche in merito allo stato di salute generale del metal italiano?

E’ una domanda che mi fanno spesso, forse perché ormai anche io inizio ad essere considerato uno dei “vecchi” della scena? In tal caso, vi prego, ricordatemi come giovane e forte. Sarò sintetico, in questo momento ci sono decine di gruppi italiani estremamente rispettati nelle varie scene che compongono il panorama musicale, penso a Fleshgod Apocalypse o Elvenking, per non parlare di tutto il filone estremo death e black che rappresenta oggi più che mai il fiore all’occhiello della proposta nostrana. Quanto ho appena rappresentato è al di fuori di ogni dubbio e mi fa molto piacere, soprattutto se penso a come venivano considerate all’estero le band italiane quando ho iniziato a suonare. Trovo, altresì, che la scena italiana abbia sempre risentito di un certo campanilismo, che è presente nel DNA del nostro popolo da secoli. La conseguenza è che, spesso e volentieri, la scena non viene vissuta a livello nazionale, ma rimane bloccata in una dimensione locale, soffocata da ridicole faide di “quartiere” che impediscono una vera e propria evoluzione, al contrario di ciò che è accaduto in altre nazioni già a partire dagli anni ’80. E’ mia impressione che le band che hanno raccolto di più, penso ancora una volta ai Fleshgod, siano state molto intelligenti a puntare su una visione più ampia, proiettandosi sul mercato estero e trattandolo alla stregua di quello italiano.

Torniamo agli ScreaMachine e alla loro attività live. All’inizio di giugno sarete al Pure Metal Fest a Roma, ma ci sarà la possibilità di vedervi dal vivo con maggiore continuità? Certo, non è facile visti gli impegni con le altre band di cui siete membri.

La nostra priorità è quella di girare più palchi possibile, e già ora siamo al lavoro con un’agenzia per pianificare un giro più esteso a partire da settembre. Ne approfitto per invitare chiunque fosse interessato a farci suonare, a contattarci sui social poiché risponderemo prontamente. Come ti dicevo prima, in questo momento ScreaMachine è il nostro impegno principale, inoltre viviamo come una missione la necessità di rendere sorda gran parte della nazione con la nostra LOUD HEAVY METAL MUSIC, quindi ce la metteremo tutta per venirvi a stanare sin sotto casa.

Francesco, grazie mille per tempo che ci hai dedicato. Potresti lasciare un messaggio ai fan degli ScreaMachine e ai lettori di SpazioRock?

Grazie a te per lo spazio concesso e per l’interessante intervista. Apprezzo la volontà di SpazioRock di approfondire anche le band giunte da poco sulla scena, oltre ai grandi nomi che sicuramente garantiscono più interesse. Speriamo che i vostri lettori vogliano cogliere la palla al balzo e scoprire la musica di ScreaMachine e, magari, anche venirci a trovare sotto il palco.

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