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Periphery – Periphery V: Djent Is Not A Genre

Che sia (poco) velata ironia o schietta presa di posizione, i Periphery scansano tutti a spallate e si riprendono il calore dei riflettori della scena prog, urlando al microfono che “no, il djent non è un genere”. E come dargli torto, oseremmo dire: il quintetto del Maryland comprime in un’affermazione la fretta e l’estremo bisogno di catalogare e ridurre la musica in faldoni. E a prender polvere, tra i tanti, c’è proprio lui, il djent, ossia l’etichetta onomatopeica (?) appiccicata sulla graduale mutazione – in gioco da ormai più di vent’anni – che ha indotto il prog metal ad infarcirsi di toni più ruvidi, ad aumentare il conteggio delle corde nelle chitarre e a destreggiarsi tra le poliritmie e i cervellotici stilemi del math-rock, mandando a quel paese lo standard tuning e i 4/4.

Misha Mansoor ed il carrozzone di Bethesda si ritrovano a compiere, forse, il passo più delicato della propria carriera e, a quattro anni dal masterpiece “Periphery IV: Hail Stan” – album spartiacque, primo per 3DOT Recordings – e con una pandemia nel mezzo, raccolgono i cocci del lockdown e racimolano le difficoltà e le intemperie degli ultimi anni, bruciandoli al chiaro di luna in un fuoco ristoratore che permette a tutti i tasselli di ricongiungersi e alla fantasia (in fase di scrittura) di valicare, ancora una volta, i confini noti.

Periphery V: Djent Is Not A Genre”, a differenza del predecessore, più quadrato e meno luminoso, schiude maggiormente il ventaglio di colori, esalando un’emotività largamente oscillante, figlia di tempi incerti, fotografandola in un songwriting – sempre di caratura elevatissima – ancora più studiato, controllato al millimetro e, di conseguenza, stratificato.

Basta lasciarsi sbatacchiare dalla opener “Wildfire” e dal suo cinematografico plot, tra le immancabili bordate in drop Ab di casa, tori da monta cavalcati dagli scream di Spencer Sotelo, che si sciolgono, come burberi dinanzi alla loro prima cotta, non appena sentono odore di ritornello nell’aria, intermezzi immersi in tiepide acque lounge e jazz ed un finale epico – che accomuna tutte le tracce del platter – da boss fight dei videogiochi, questi ultimi parte integrante del disco e della routine giornaliera dei Nostri, come intuibile dalla cavalcata in chiusura di “Thanks Nobuo” – in onore di Nobuo Uematsu – o dal colossale tracciato di “Zagreus”, ispirato da “Hades” e dalle vicissitudini del suo protagonista, molto Meshuggah nel nervosismo martellante delle strofe, molto Periphery in tutto il resto, nelle sezioni in blast beat, nel clean singing che flirta con le fasi di chitarra più intricate e melodiche, nel solo che spezza in due lo scheletro del pezzo e lascia vibrare l’ugola del frontman, abile nel donarci uno dei momenti più sentiti e meravigliosi dell’album quando, dal quarto minuto in poi, si adagia sul tappeto sognante delle sei corde e canta “Will it ever be? Will we ever live in honesty? / ‘Cause we’re falling apart, falling apart, you and I”, sgretolando, di fatto, ogni pensiero, ogni difficoltà che aleggia alle nostre spalle, ricordandoci l’inspiegabile potere della musica di pizzicare le cicatrici più sensibili dell’anima.

Le massacranti meccaniche di “Everything is Fine!”, trainate dalla doppia cassa di Matt Halpern e da un riffing acidissimo, ci permette di assaporare quella durezza che il trio Mansoor/Bowen/Holcomb faceva confluire – nel predecessore – in hit da sfondamento (“Blood Eagle”, “CHVRCH BVRNER”) e che ora divide strategicamente lungo tutto lo sviluppo, influenzando il mutevole scorrimento di “Dracul Gras” ed il roboante climax di “Atropos”. Ma i Periphery ed i suoi axemen amano la melodia, l’arpeggio intricato e le splendide contorsioni sonore che ne vengono fuori (“Wax Wings”), così come il synth – che riempie saggiamente quei pochi attimi scoperti – e le conseguenti (non entusiasmanti) derive pop (“Silhouette”), che assieme alla più morbida “Dying Star” inquadrano uno spezzone centrale di album lievemente sottotono; nulla di cui preoccuparsi, dato che il sottotono è rapportato ad una qualità compositiva fuori dalla norma.

Step complesso, ma superato alla grandissima, quello suggellato dal settimo full-length dei Periphery, che ripartono dopo un lungo periodo di incubazione e con la minacciosa ombra di uno splendido capitolo “IV” ad aumentare la pressione, quest’ultimo avvicinato, raggiunto, ma non sorpassato – per qualche inezia – da questo “Periphery V: Djent Is Not A Genre”, colossale, epica, esagerata illustrazione di una band che ha riacquisito pienamente quella voglia di divertirsi e di emozionarsi, sempre in costante e severa evoluzione, per alzare irrefrenabilmente degli standard che, già ora, oltrepassano ogni umana concezione ed ogni terrena capacità di fare musica.

Tracklist

01. Wildfire
02. Atropos
03. Wax Wings
04. Everything Is Fine!
05. Silhouette
06. Dying Star
07. Zagreus
08. Dracul Gras
09. Thanks Nobuo

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