Marco Ferradini (Marco Ferradini)
Quando tutto nella propria vita resta unito da un fil rouge, per quanto nascosto, ogni cosa mantiene un senso, perché tutto è una conseguenza naturale di ciò che si fa, e di ciò che si è. Oggi Ferradini prosegue in un cammino iniziato oltre trent’anni fa e mai interrotto, sempre raccontando se stesso, le sue emozioni, a cominciare dal cd e dallo spettacolo che sta preparando sulla figura dell’artista e amico Herbert Pagani.
Articolo a cura di Arcangelo Accurso - Pubblicata in data: 21/05/12
Lo spettacolo nasce da un’esigenza che avevo da tempo, visto che abbiamo lavorato assieme per dieci anni, sia in sala d’incisione per creare le musiche per i suoi testi che per i brani che scrivevamo insieme. Questo perché mi sono accorto che Herbert, uno fra i più grandi artisti del suo tempo in Italia, era stato completamente dimenticato. Tutti vengono ricordati e sono oggetto di celebrazioni, tramite spettacoli o tributi vari, ma su di lui nessuno lo aveva ancora fatto; siccome io ho avuto la fortuna di lavorare con lui ho pensato di colmare questo vuoto. In realtà tutto è cominciato col disco, più che dallo spettacolo; sto ultimando in questi giorni un doppio cd, dove ho raccolto ventuno brani tra suoi (fatti con Edoardo Bennato, Ivan Graziani e altri) e miei, partendo dallo spunto che ho ricevuto da un incontro con un ragazzo di Trieste che aveva allestito una mostra che esponeva tantissimo fantastico materiale su Herbert (fra cui pitture, sculture e scritti). Questa occasione mi ha spinto a farmi carico del progetto; ho preso la chitarra e ho cominciato ad elaborare queste canzoni con il mio linguaggio musicale e sono venuti fuori questi ventuno brani. Da loro poi con naturalezza è nato spontaneamente lo spettacolo, che abbiamo testato già tre volte, col contributo di un amico attore, Davide Colavini; il risultato è stato ottimo, perché i brani in sé riassumevano già una storia, tutta la vita di Herbert e la mia. Nella sua bravura Herbert riusciva a trattare tutti i temi dell’esistenza, anche i più banali, sempre con classe, eleganza ed originalità. Dalla riscoperta di tutto questo materiale quindi prende forma sia il disco che lo spettacolo teatrale. Il disco è in uscita per l’inizio di giugno; non ho ancora scelto il titolo, anche se volevo chiamarlo “La mia generazione”, intendendo con questo la generazione di Herbert, la mia e quella attuale, per confrontare come si scrivevano le canzoni una volta, come sono state recepite e come si scrivono adesso. Ma non ho ancora deciso. L’album comunque ha un tocco tutto acustico, fatto con chitarra, mandolino, pianoforte, fisarmonica e quartetto d’archi, un’orchestrazione da teatro; ho voluto evitare basso e batteria perché da anni faccio concerti e musica da palco e sono stanco di sentirmi sopraffatto dall’impianto ritmico, ho preferito tornare a dare più risalto alle note. Nel disco poi figurano tanti amici che hanno collaborato cantando in modo prezioso: Ron, Fabio Concato, Eugenio Finardi, Alberto Fortis, Mirò, Legramandi (mia figlia), Siria, Giovanni Nuti, Flavio Oreglio e Shel Shapiro. Tutte persone che apprezzavano Herbert e lo hanno voluto ricordare. In più il tutto sarà corredato da un libro, un racconto a ritroso che parte dal momento in cui ho ricevuto la notizia della sua morte, nel 1988, per radio mentre guidavo, in cui ripercorro tutta la storia della nostra amicizia, da quando ci siamo conosciuti a tutto quello che abbiamo vissuto assieme. Testimonianze di tante persone che lo hanno conosciuto, per riportare all’attenzione della gente tutto ciò che di bello e valido lui ha concepito, per non farlo cadere nell’oblio. Un’artista forse troppo poliedrico che per questo è sfuggito alla comprensione generale.

ferradini_intervista_2012_02Ma torniamo a quello che eri prima di diventare Marco Ferradini: qual era il tuo rapporto col rock? Lo ascoltavi? Lo suonavi? In che misura ti ha influenzato?

La mia formazione è stata influenzata innanzitutto dai Beatles, perché penso che ogni musica ha una sua fase, che si ricollega a quella della tua vita. A quel tempo in Italia la radio trasmetteva musiche di due tipi: da una parte i cantautori, Paoli, Bindi, Tenco, Endrigo, che parlavano di sé stessi, dall’altra cantanti finti, costruiti dal sistema industriale, fatti in casa dalla RAI TV, che si trovavano alle spalle maestri che avevano bisogno di semplici interpreti. Per il resto non c’era molto di più, prima dell’avvento delle radio libere. Io quindi, come tanti, ascoltavo Radio Luxemburg a tarda sera che trasmetteva cose bellissime. I primi Beatles li ho ascoltati lì; per esempio con “Please, Please Me” sono letteralmente impazzito, perché facevano la musica che volevo io. Era come se tutti aspettassero il loro arrivo. Da lì ho incominciato ad apprezzare tutta la musica che desse grande importanza alla melodia, che secondo me è la cosa più difficile da fare; se manca lei manca il 50% del pezzo. Per il resto per me il rock ha sempre rappresentato carica umana, voglia di esprimersi, energia; una musica per questo legata all’immaginario giovanile, quando vuoi cambiare tutto, affermarti.

In “Lupo Solitario DJ” però citi Elton John e Jackson Browne, non so quanto a caso, ed io aggiungerei anche Christopher Cross, che ritroviamo nell’introduzione di “Teorema”, o mi sbaglio?

No, no, sono riferimenti precisi, ed ora ti spiego anche il fatto riguardo a “Sailing” di Christopher Cross. Nel 1980 ero in una crisi affettiva, avevo appena chiuso il mio matrimonio e sono partito per un viaggio in sacco a pelo negli Stati Uniti, in Greyhound da Los Angeles a New York. Nell’agosto di quell’anno in America per radio quella canzone era trasmessa a ripetizione, in modo martellante; per 6.000 chilometri ho viaggiato con questa frase musicale in testa. Quando sono tornato a Milano e mi sono trovato con Herbert Pagani per i testi delle canzoni (che erano già pronte) ho voluto fare un omaggio al viaggio che avevo appena fatto inserendo l’arpeggio, per ricordarmi di questo momento di passaggio così significativo per me.

Quindi, riassumendo, nella tua formazione di musicista hai preso parte dell’impostazione melodica dal rock inglese di stampo beatlesiano, ma sei molto più incline, vista la tua elezione per la chitarra folk, alle forme di un certo tipo di rock acustico americano.

Certamente, per esempio gli Eagles o James Taylor. Sono dei miei punti di riferimento, lo sono sempre stati. Ancora adesso sentire queste musiche mi fa stare a mio agio. Mentre già mi ritrovo meno con Tom Petty, ad esempio; sento la mancanza della melodia.

E poi arriva “Teorema”, un fatto devastante. Hai avuto anche tu l’effetto “Samarcanda” come accadde a Roberto Vecchioni, che si vide rivoluzionare l’esistenza, o no?

Io sono un tipo con i piedi per terra. Ho sempre lavorato in sala d’incisione, con artisti anche molto più famosi di me, ma sono sempre appartenuto a questo mondo e l’ho vissuto in modo molto naturale. Prima di Teorema avevo partecipato a Sanremo con “Quando Teresa Verrà”, una grande emozione che però non portò il successo che sembrava dovesse arrivare; quindi quando è arrivato il trionfo avevo già sofferto abbastanza per esaltarmi più del dovuto. A differenza di quanto succede adesso, con i ragazzi che diventano famosi senza avere le basi; io le basi ce le avevo, così sono rimasto affascinato, non lo nego, ma non mi ha stravolto più di tanto la vita. Cosa che aiuta in questo ambiente, dove devi sempre restare presente a te stesso.

Però è innegabile che "Teorema" sia un totem che incombe sempre su di te; è entrata a far parte dell’immaginario collettivo come “…e adesso spogliati come sai fare tu”, “…come può uno scoglio arginare il mare” o “…quella sua maglietta fina”. Oppure lo vivi serenamente?

Da una parte questo è vero, ed è inevitabile. Ma ho comunque continuato per la mia strada, magari senza il supporto discografico adeguato, facendo le cose che volevo fare. È anche chiaro però che quel successo mi ha permesso di continuare a fare musica, che è il mio vero successo; quello che mi permette a sessant’anni di salire su un palco e suonare. Tutto il resto non mi interessa troppo.

Per concludere, quindi, qual è il tuo rapporto odierno con la musica da musicista maturo e consapevole?

ferradini_intervista_2012_03Io ho imparato in tanti anni di musica che il vero musicista vuole suonare, è nato per suonare, non per andare in televisione, che può essere un punto di arrivo ma non di partenza. Invece adesso si fa il contrario, ma quando si fa così non si ha niente da dare al pubblico e si uccide la musica, perché quando la gente avverte che non c’è sostanza ma solo immagine e niente da raccontare, perde presto di interesse. La gente invece ancora si ricorda e chiede le canzoni di una volta; ma non c’è da sorprendersi, perché erano il risultato di un’evoluzione e di uno sforzo progressivo, di esperienze solide costruite nel tempo. Questo è tangibile, trasmette emozione; perché è vero. Unico compito dell’artista è emozionare il pubblico, dare qualcosa. Chi subisce questo fascino però è il pubblico più giovane, al quale l’industria si rivolge, anche se dopo non rimane più niente.

Marco si è definito un sentimentale. Per fortuna c’è ancora chi ha il coraggio delicato di ammetterlo.


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