Passiamo subito al tuo nuovo album, "Truth In Unity". Già il titolo sembra veicolare un messaggio forte, chiaro, diretto come il suo sound, non credi?
Mai titolo penso fu cosi azzeccato. Si parla di una tribù e di unità, in un'era in cui oramai si tende a condividere le proprie emozioni e il quotidiano con un mondo virtuale. Il disco stesso presenta tanti ospiti di livello che, con me, condividono l'amore per il rock. Penso di essere riuscito a cementare un sound abbastanza uniforme e di impatto.
È davvero gradevole ascoltare un disco hard rock classico sino al midollo, robusto, energico, ma non per questo monodimensionale. Come e quando è nata l'idea di questo lavoro, anche piuttosto consistente per quanto riguarda il numero dei pezzi?
L'idea era dare un seguito al successo del mio debut album "Freak Out", che vedeva tanti ospiti e un suono hard abbastanza Seventies. Durante le registrazioni del mio secondo album, il concept "Discovery", alcune demo furono scartate perche ritenute poco in linea con le atmosfere del suddetto. Lavoro a questo disco da oltre 10 anni. Ho sempre ritenuto liberatorio non essere monocolore nelle mie scelte musicali. Sono cresciuto con band che riuscivano ad inserire in un platter tanti generi, pur rimanendo credibili nel panorama dell'hard rock, quindi ho cercato di concepire l'album con leggerezza, senza la paura psicologica di sbagliare e non seguendo il trend di un mercato, quello di oggi, che non mi entusiasma.
Tra i tanti ottimi brani del lotto, il funk/r&b di "Freedom" e la fluviale "Ridin' The Freebird Highway" colpiscono davvero nel segno, ponendosi piacevolmente a latere dello spirito complessivo dell'LP. Puoi parlarci della loro genesi?
Hai citato due dei miei brani preferiti, proprio perche costituiscono gli antipodi di un album molto vario che rappresenta una sorta di tributo al rock e a chi è stato indiscusso protagonista della mia crescita musicale. "Freedom" è nata dalla mia collaborazione con Francesco Marras. Volevo un brano che seguisse un mix di linee sonore da black exploitation sino a Trapeze o Mother's Finest. Ha un grande groove e ricalca a pieno il mio stile musicale, è un vestito in cui mi sento molto a mio agio. L'ho arrangiato personalmente e mi sono divertito molto a creare dei cori che fossero accattivanti e trascinassero il brano. Alla fine del pezzo c'è una frase che ho rubato proprio alla famosa "Freedom" di Jimi Hendrix. "Ridin' The Freebird Highway", invece, è una canzone che mi rende particolarmente orgoglioso. Scritta da Janne Stark su mie indicazioni (volevo creare una epic song dal sapore southern, sullo stile di Outlaws, Blackfoot, Lynyrd Skynyrd), e con la mia partecipazione all'arrangiamento e al testo, il brano in questione è una cavalcata sfrenata che parte lenta ed oscura, ma termina con una sequel di duelli chitarristici tra Peter Selem, lo stesso Janne Stark e Tracii Guns. Sul finale un colpo di gong chiude una grande porta che difficilmente riuscirò a riaprire per offrire ancora tale intensità.
Per il singolo "Angel City", il video è stato girato a Los Angeles. Qual è il tuo legame con la città californiana?
Vado da 14 anni ininterrottamente a Los Angeles. Per me è una seconda casa. Ho tanti amici e tanti ricordi che mi legano a quel posto. Solo il Covid-19 è riuscito a fermarmi dal tornarci anche in questo 2020. Mi piace il clima, l'approccio alla vita mai tragico o drammatico degli americani, il loro "easy does it" o "take it easy" che cerco di applicare al mio modus vivendi.
Ciò che sorprende sono i nomi coinvolti nel progetto, una vera e propria hall of fame dell'hard rock. È stato difficile amalgamare i vari stili dei singoli musicisti senza perdere il filo conduttore del disco? E con chi ti sei trovato veramente alla grande?
È sempre difficile creare un unicum da varie sonorità che fanno parte della personalità musicale di ciascun artista e, inoltre, non è facile far si che file provenienti da studi diversi possano dare la stessa qualità finale. Ci è voluto tempo, dedizione, amore e passione. Devo ringraziare anche e soprattutto il lavoro e l'abilità tecnica di Frank Altare, il mio sound engineer, che ha saputo creare una sorta di calcina sonora tra i vari brani in modo da renderli molto omogenei. Posso dire, poi, che sono molto felice della mia collaborazione con tutti i musicisti e sono loro grato! Ognuno mi ha trasmesso qualcosa arricchendo me e il mio lavoro. Janne Stark è la persona con cui ho avuto modo di esprimermi al meglio e, per questo, ha partecipato alla stesura di molti brani dell'album.
Molti sono anche i duetti vocali: quello con Bobby Kimball in "The Seventh Son" è uno dei più riusciti. La ricetta per un timbro perfetto e flessibile? Esercizio? Esperienza? Talento naturale?
Da ragazzo passavo ore con le cuffie a cercare di rubare i segreti dei più grandi cantanti: Stevie Wonder, Freddy Mercury, Paul Rodgers, Chris Farlowe, Janis Joplin, Glenn Hughes, Lou Gramm, David Coverdale, Ian Gillan, Geoff Tate, Midnight, Bruce Dickinson, solo per citarne alcuni. Ho sempre pensato che la mia via fosse il blues con le sue note viscerali, l'improvvisazione, il feeling. Non ho mai perseguito la ricerca verso la voce perfetta. A volte ciò che piace non è la perfezione, ma proprio quel piccolo difetto che rende unica una voce. Chiaramente un minimo di talento, quando si sceglie questa strada, ci deve essere. Rende il tutto più fluido.
Sei un cantante, un songwriter e un produttore dalla carriera lunga, fruttuosa e ricca di incontri e collaborazioni. Immagino gli aneddoti e gli episodi accaduti: ce ne racconti qualcuno?
Ricordo quando invitai Bernie Marsden a registrare a Roma. Eravamo in studio da Davide Spurio, e Bernie aveva appena finito di incidere le sue chitarre sul brano "Lady Starlight". Eravamo cotti e pronti per andarcene quando Bernie iniziò a ripulire lo studio. Prese un sacchetto e ci mise bottiglie, bottigliette, carte, rifiuti. Noi rimanemmo tutti esterrefatti alla vista di tutto ciò e gli dissi: "Bernie, ma cosa fai? Andiamo, non ti preoccupare". Il chitarrista storico degli Whitesnake, l'autore di "Here I Go Again" che ripulisce lo studio alla fine di una session! Con il suo tipico accento inglese, ci spiegò che per lui era cosa normalissima lasciare lo studio come lo aveva trovato. Questo fa capire l'umiltà e la signorilità di certi personaggi. E noi che ce ne stavamo andando lasciando lo studio nel caos, rimanemmo di stucco.