My Bloody Valentine - mbv tour 2013
27/05/13 - Estragon, Bologna


Articolo a cura di Alberto Battaglia

Voi l'avreste detto che i My Bloody Valentine sarebbero tornati a suonare in Italia, con addirittura un nuovo album all'attivo? Noi proprio no, ma così è la vita: ciò che non è capitato in vent'anni può sempre capitare in ventuno. Ed è così che noi, assieme al pubblico che ha riempito l'Estragon, ci siamo tuffati in un concerto che per la sua unicità generava le più grandi aspettative. Parliamo di un gruppo che, del resto, ci ha lasciato molto più di semplici registrazioni: ha creato ex novo una vera e propria grammatica alternativa con cui approcciare la chitarra elettrica; oltre ai loro dischi c'è tutta una progenie di artisti che citano i My Bloody Valentine come loro maestri, inarrivabili. Anche così nasce un mito. L'impatto con la realtà, però, è molto meno poetico di qualunque narrazione. Quando ti ritrovi Kevin Shields a pochi metri e realizzi che che non stai ascoltando un leggendario vinile, ma un concerto autentico, emergono oltre alle doti anche i limiti e i difetti di quello che, oggi, i My Bloody Valentine hanno da offrire in concerto.

Nel bene e nel male, è stato un concerto speciale, nel quale la band irlandese ha potuto mostrare la propria distanza dal mondo che usualmente chiamiamo rock. Una muraglia di amplificatori di diverse foggie sapientemente microfonata e una dozzina di strumenti fra chitarre e bassi possono rendere l'idea di quanto la cura del dettaglio sonoro sia fondamentale per gli irlandesi; sembra poi paradossale aggiungere che mai s'era visto un concerto suonato a volumi così frastornanti, da far tremare i denti e sanguinare le orecchie. Eppure questa è una prova fisica necessaria, perchè ascoltare lo shoegaze dei Valentine è anche e soprattutto sottoporsi al trasporto che il suono, inteso come frequenza, è in grado di imprimere al corpo. Certo ci sono anche i ritmi e le melodie, ma i primi sono spesso ripetitivi, invariabili, le seconde quasi inavvertibili nel concerto; il tutto a vantaggio delle distorsioni di chitarra che c'investono come un onda d'urto e invitano a cedere le resistenze, chiudere gli occhi, e abbandonare i sensi. Bilinda Butcher e Kevin Shields sono i primi a suonare immobili e silenziosi come ombre d'albero, persi nel loro mondo. Qualcuno li invita a parlare, un altro sale sul palco e li abbraccia, ma nulla sembra davvero in grado di collegarli con la platea sottostante. Non c'è stato un "noi" e un "loro": ognuno avrebbe dovuto seguire le sue personali esperienze sensoriali in modo autonomo. Secondo i canoni più tradizionali della fruizione dal vivo sono, invece, la maggioranza dei brani precedenti a "Loveless", veloci e diretti, per quanto suonati senza battere ciglio dai due frontmen; sará proprio per questa maggiore accessibilità che il pubblico risponde più pronto a una "Thorn" piuttosto che a una "Come In Alone". Alla fine arriva addirittura un imprevisto pogo su "You Made Me Realize", quasi come sfogo rispetto al torpore psichedelico indotto da numerosi brani precedenti. Ma subito dopo la band risponde, forse per castigare tale indisciplina, con una sfuriata di rumore puro della durata approssimativa di 7-8 minuti nella quale la sala viene spazzata da onde sonore talmente dense che sembra quasi di vederle, e man mano i volumi che già sembravano oltre il massimo fisico continuano a aumentare come un motore a reazione in fase di decollo. Decisamente troppo per chiunque.


Un' esperienza fisica estrema, innanzitutto, un' esperienza poi particolare e difficilmente catalogabile come "rock", un'esperienza, infine, che non è stata condotta con molta passione, ma con una distanza davvero eccessiva. Ma forse anche un'esperienza da provare.




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