Marduk+Ragnarok+Infernal War+Gravestone - Viktoria Europa Tour 2018 - March Of Blood And Iron
09/05/18 - Traffic Live Club, Roma


Articolo a cura di Giovanni Ausoni
Sembra chiaro che la Prenestina aspiri a divenire progressivamente la succursale della Gehenna: dopo la straordinaria esibizione dei Satyricon dello scorso marzo nella cornice di Largo Venue, questa volta compete al piccolo Traffic Live Club ospitare i Marduk, leggendaria band svedese sulla cresta dell'onda da un quarto di secolo. Robusto e di qualità il corteggio regale della sanguinosa "March Of Blood And Iron" condotta nei territori della vecchia Europa: laddove i romani Gravestone, pur ottimi musicisti, rimangono un gruppo poco conosciuto nel panorama estremo mondiale, la coppia costituita da Infernal War e Ragnarok di certo non obbliga a pleonastiche presentazioni. Un plauso va tributato all'allestimento tecnico dello spettacolo per l'ottimo bilanciamento dei suoni, risultato vitale per  la globale sopravvivenza acustica alla prevista mattanza.
 
 
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Intorno alle 19:30 si spalancano le ante della rugginosa cancellata: violenti scrosci d'acqua precedono l'ingresso del pubblico, che, as usual, si mostra numericamente striminzito nelle battuta iniziali. CD, vinili, magliette, insipida birra alla spina a profusione, drink variegati: in una classica atmosfera da pre-concerto alcuni si aggirano impazienti, bicchieri in mano e pronti a ricevere vibrazioni a fil di lama, altri siedono su sdrucite poltrone carpite a generosi rigattieri capitolini o su scomode sedie di legno zuppe per la pioggia caduta a secchiate. Abbigliamento rigorosamente nero, trapunte di barbe e notevoli addomi in esposizione connotano il lato visivo di una soirée che, almeno dai nomi in cartellone, garantisce momenti entusiasmanti.
 
 
Spetta ai Gravestone dare il via al ricevimento: nonostante la platea conteggi davvero anime esigue, i cari compatrioti non si scoraggiano, mettono a punto gli strumenti e principiano le danze propinando alla folla ancora sparuta l'intero EP del 2017 dal grazioso titolo "Proud To Be Dead", secondo mini di una discografia latitante riguardo la produzione di release sulla lunga distanza. Nonostante una formazione completamente stravolta rispetto a origini che si perdono nel lontano 1992 e con il chitarrista Marco Borrani unico superstite di un'era lontana, gli italici appaiono affiatati e prodighi di sorrisi quando il progressive death di "Corpses Embodiment" volteggia ferino eppure amichevole nel buio soffuso del Traffic. Le pause e le accelerazioni gestite in modo equilibrato di "Flagellation", la cavalcata simil-power di "Eyes Without Sight", il sinistro rumore dei carillon in apertura di una title track dalla scansione devastante e l'onirica "Matres", maligno omaggio alla "Trilogia Delle Tre Madri" di Dario Argento, palesa un ensemble in pieno stato di salute, con una particolare menzione d'onore per la sezione ritmica: l'esperienza di David Folchitto alle percussioni e il solido basso dell'ex Rosae Crucis Maax Salvatori evidenziano come i nostri possano affidarsi a un propulsore instancabile su cui costruire un agognato e futuribile full length. Alla fine della fiera le bacchette diventano preda del voraci astanti in aumento impressionante, mentre il sestetto posa simpaticamente per una foto ricordo.
 
 
Dieci minuti di sosta e tocca agli Infernal War scaldare una marea ben più consistente, dedita, in ossequio alla loro imminente comparsa, a imprecazioni e bizzarri neologismi antireligiosi: il black del combo polacco di Częstochowa, attivo dal 1997, possiede il turgore degli Impaled Nazarene tesi a coverizzare "Panzer Division Marduk" (1999) all'interno di un furgone echeggiante di incitamenti all'odio contro la dottrina giudaico-cristiana e lanciato a folle velocità in direzione della Basilica di San Pietro. Il batterista Stormblast pare colpire teschi anziché piatti, i giganteschi Triumphator e Zyklon padroneggiano una scorta infinita di riff in staccato che richiamano braciole thrash arrostite nel decimo cerchio dell'inferno; da par suo il sostituto di Herr Warcrimer, che non amava troppo le sottigliezze alla fatidica scelta del pugnace nom de plume,  rigurgita urla di acerrimo livore così spietate e bestiali da apparire autentiche. L'audience immediatamente sottopalco partecipa avidamente al funesto banchetto stringendo le mani di un frontman tutt'altro che restio a brandire arti a destra e a manca e a roteare il capo con ammirevole pervicacia, rischiando fratture cervicali da C1 a C7. Il set sprizza subito vampe ossidriche con il tremolo picking e i blast beat in salsa grindcore di "Coronation", trabocca plasma blasfemo in "Spill The Dirty Blood Of Jesus", si immerge nelle profondità demoniache di "Into Dead Soil"; se la furia iconoclasta imperversa in "Crushing Impure Idolatry" e articolazioni complesse e brucianti sorvolano "Paradygmant", le caustiche "Spears Of Negation" e "Axiom", figlie della cupa ideologia degli Ad Hominem, concludono una corsa breve e intensa, al termine della quale l'atletico vocalist scende dallo scranno elargendo selfie e autografi a un parterre soddisfatto del gravame tossico penetrato dalle strettoie della natural burella.
 
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Ennesimo intervallo, cambio di vessillo e i Ragnarok emergono dal fondo delle quinte: tediati da incessanti variazioni nella line-up, che ne hanno minato stabilità e crescita qualitativa, i norvegesi confezionarono nel 2016 il discreto "Psychopathology", innalzando il livello medio delle ultime opere. Lo scream evocativo del mastermind Jontho Panthera, issatosi dalle pelli al fine di esercitare l'ugola animalesca, infonde avvenenza luciferina a una tracklist che pesca dagli LP realizzati i frammenti adatti a una bollente seduta on stage. Certo, il face painting casalingo non terrorizza nessuno, la croce vermiglia rovesciata  dipinta sulle cerulee fronti cadaveriche, sciogliendosi gradualmente con il calore, assume le fattezze del sole rosso che campeggia al centro della bandiera nipponica, la forma fisica non offre segni di tonicità smagliante: nondimeno la prestazione risulta ineccepibile, con la sala piena al pari di un uovo e l'headbanging che fiorisce a vista d'occhio. Bolverk, al di là della somiglianza posturale con un Maurizio Costanzo sprovvisto di baffi e dal fluente pizzetto vichingo bullonato a dreadlock, carica di un tremore convulsivo vicino al Parkinson i solo impegnativi e gozzoviglia leggiadro nella messe di classici accordi bitonali e stoccate al vetriolo sulla corda singola; il drumming matematico del giovane Malignant e il supporto nel controcanto del bass player Christopher Rakkstad completano una prova d'insieme trascinante e impreziosita da una componente atmosferica avvertibile soprattutto nei mid-tempo. L'aggressione in stile Deicide di "Dominance & Submission", il mood entropico di "In Nomine Satanas", il brutalism di "Blood of Saints" e "Collectors Of The King", l'old school di "Pagan Land", l'apparato melodico di "Murder", gli intrecci armonici di "Infernal Majesty", le sassate di "It's War", la mitragliata lo-fi di "Blackdoor Miracle": una sarabanda omicida ove i quattro sguazzano con sollazzevole diletto creando un clima generale di divertente sabba macabro. Un act stagionato, tuttavia in grado di intrattenere calche di adepti fedeli al trve kult per antonomasia.
 
 
Nel frattempo drappi verde militare vengono posti sugli amplificatori, il caratteristico effetto nebbia invade la sala, luci rosse e blu in psichedelica alternanza preannunciano gli attesi headliner delle ventitré. La mancanza di un servizio d'ordine, i fiumi di alcol nelle vene e una parola di troppo provocano nell'intervallo un pericoloso trambusto: qualcuno pensa bene di accendere una piccola rissa risoltasi fortunatamente presto grazie all'intervento provvidenziale di improvvisati buttafuori abili nello scortare con gentilezza il reo e paonazzo agitatore all'esterno della struttura. Le lancette compiono il sessantesimo giro ed ecco entrare in pompa magna i Marduk, che avvaloreranno la fama di carro armato bellico, sia a livello lirico che di resa dal vivo: benché l'impresa di far dimenticare Legion si riveli ardua, Mortuus gigioneggia freddo e spavaldo nell'arringare la torma oramai brulicante, Morgan Håkansson arpeggia in maniera secca e distorta schivando vacui virtuosismi, il motore metronomico costituito da Devo e Frederik Windigs evita superflue prevaricazioni sui due massimi protagonisti della scena. In avvio tuonano "Panzer Division Marduk" e "Baptism By Fire": precise, violente e marziali, ambo le piste rappresentano l'adatto abbrivio empatico indispensabile al coinvolgimento di una moltitudine che sulle note quasi black'n'roll di "The Blond Beast" non si trattiene dal moshpit selvaggio. Il singer approfitta di rapidi break per dissetarsi e rinfrescare la chioma sudaticcia scaraventando su di essa H2O a manetta; al contrario, nei passaggi cadenzati dei brani, si abbassa sino a terra a mò di rincorsa, balzando poi minaccioso dall'abisso allo scopo di sputare lingue di fuoco dalla fauci arroventate. Intanto, poscia l'acidulo martellare di "Of Hells Fire" e i rari sussulti dell'opaca "The Levelling Dust", risuonano le sirene di "Werwolf", estratta unitamente a "Equestrian Bloodlust" dal nuovo lavoro "Viktoria", in uscita il 22 giugno: dinamiche e granitiche, non si discostano molto dall'ambiente soldatesco di "Frontschwein" (2015). Si picchia duro con la caotica cavalcata "Cloven Hoof", i fraseggi di "Throne Of Rats" e la laboriosità bestiale di "Between The Wolf-Packs"; attraverso "Wolves" e "Burn My Coffin" invece l'act di Norrköping rispolvera passati frammenti di grandezza dal mitologico "Those Of The Unlight" (1993), gioiello ricco di violenza dionisiaca, ebbrezza eufonica e ombre diaboliche. Chiude lo show "Into Utter Madness": Rostén resuscita il cliché dello war spirit tipico degli scandinavi, ergendo la propria figura a perfido bardo apocalittico capace di velare con il carisma misticheggiante della mimica il valore non eccellente delle linee vocali, carenti di significative sfumature. Complice la fugace sparizione del combo che ci priva di un desiderato encore, resta dell'amaro in bocca per una prestazione sì all'altezza, ma a tratti abbastanza piatta nell'escalation monocromatica da imperterrita operazione guerrafondaia.
 
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Il sipario cala, le armi vengono deposte, l'aria primaverile corrobora le membra avvilite da ore in posizione eretta, ognuno, in silenzio, muove i passi verso casa, in una selva di marciapiedi divelti, fango rappreso e immondizia lungo la strada: il volto deforme della Roma notturna, illuminato, per un istante, dal baluginio delle fiamma oscura.

 

Setlist Gravestone

Corpses Embodiment
Flagellation
Eyes Without Sight
Proud To Be Dead

Matres

 

Setlist Infernal War

Coronation
Spill The Dirty Blood Of Jesus
Into Dead Soil
Crushing Impure Idolatry
Paradygmant
Spears Of Negation
Axiom

 

Setlist Ragnarok

Intro
Dominance & Submission
In Nomine Satanas
Blood Of Saints
Collectors Of The King
Pagan Land
Murder
It's War

 

Setlist Marduk

Panzer DIvision Marduk
Baptism By Fire
The Blond Beast
Of Hells Fire
The Levelling Dust
Werwolf
Cloven Hoof
Throne Of Rats
Between The Wolf-Packs
Burn My Coffin
Equestrian Bloodlust
Wolves
Into Utter Madness

 

 

 





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