Marduk
Viktoria

2018, Century Media
Black Metal

Recensione di Giovanni Ausoni - Pubblicata in data: 18/06/18

I Marduk rappresentano di certo una delle band fondamentali del panorama black metal, autori di opere prive di compromessi e dal taglio provocatorio, soprattutto per un comparto lirico e iconografico di matrice militare, legato all'immaginario del secondo conflitto mondiale e, più o meno velatamente, al fascino morboso per il Terzo Reich. A un primo sguardo "Viktoria", ideale prosecuzione bellica di "Frontschwein" (2015) contiene gli ingredienti necessari per la classica legnata in camouflage e l'impressione risulta confermata dai fatti: purtroppo, sebbene nel complesso apprezzabile, il nuovo disco si dimostra privo di veri e propri picchi e non aggiunge nulla di davvero rilevante al corpus dei demoni babilonesi. 

 

Inoltre la lunghezza relativamente breve del lotto non sembra una scelta pianificata tout court, quasi come se la scrittura di materiale inedito fosse soltanto una chiamata al dovere dopo tre anni di assenza: mentre i brani alternano momenti di furia genuina ad altri nei quali si avverte la cristallizzazione di uno stile oramai giunto alle ultime battute, la prestazione del quartetto risulta ambivalente. Ineccepibili dal punto di vista tecnico, con una menzione speciale per il giovane batterista Fredrik Widigs, i nostri peccano a livello di ispirazione, con Morgan Håkansson impegnato in un riffing instancabile, ma meccanico e Mortuus spesso monocorde nelle linee vocali. A tratti si individuano sforzi di divincolarsi dal sound consueto e abbozzi non portati a termine, una sorta di tentativo, riuscito a metà, di amalgamare l'eresia de "La Grande Danse Macabre" (2001)  con le vibrazioni atmosferiche di "World Funeral" (2003); nonostante la brutalità e la potenza rimangano inalterate, il platter dunque possiede le stigmate della prova minore in rapporto alla qualità media palesata nel corso dei lustri.

 

L'opener pseudo-punk "Werwolf", dal songwriting particolarmente essenziale, affiora stranamente orecchiabile, con tanto di sirena antiaerea e un blasfemo tocco simil-Dimmu Borgir nei cori a ornamento della canzone. Il lavoro serrato delle sei corde e il drumming martellante fungono da marchio inconfondibile del gruppo: un inizio promettente che resta, in parte, insoddisfatto. Percussioni incendiarie e tremolo picking caratterizzano "June 44", pezzo dalla struttura rigida e dal fraseggio ripetitivo che tuttavia in chiusura risale la china attraverso un vortice strumentale di cupa alterigia; a seguire "Equestrian Bloodlust", benché non particolarmente varia, ritrova la spietatezza sincera di una "Panzer Division Marduk". Il ritmo rallenta invece in "Tiger I": la pista conosce delle pause, si ritaglia dello spazio per respirare, la chitarra si impigrisce e, malgrado si lanci in sezioni al fulmicotone, preferisce attestarsi su binari doomy. "Narva" riprende l'usuale cadenza selvaggia, con il basso di Magnus "Devo" Andersson in stentorea evidenza tra una gragnola di graditi cambi di tempo e un bridge da manuale che costituisce probabilmente il momento saliente del full-length. Laddove "The Last Fallen", associa la scarna urgenza dei Venom a passaggi maggiormente sulfurei, l'oscura "Viktoria" rispetta alla lettera i dettami guerrafondai degli svedesi risultando però penalizzata da un ponte lento e sfilacciato e da un testo piuttosto povero e banale. La torbida "The Devil's Song" gode di trionfali reminiscenze old school: aggressiva, energica, asciutta, la traccia cattura lo spirito nero del glorioso trve kult, mentre la sbilenca e dissonante "Silent Night" esibisce finalmente l'ugola di Daniel Rostén all'apice dell'angoscia e della bestialità.

 

Al quattordicesimo album in studio i Marduk sostano ostinati nell'amato Campo di Marte: le lunghe battaglie vivono di alti e bassi e questa volta i nostri appaiono, rispetto a precedenti occasioni, vittime di tali ondivaghe fluttuazioni. Del resto la "Viktoria" non sempre arride all'esercito meglio corazzato.

 





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