Robben Ford è uno di quei nomi verso cui è facile provare una sorta di timore reverenziale. Chi come noi lo conosce in maniera sommaria, ne riconosce la fama derivata dalle sue indubbie doti chitarristiche. Un artista capace di far parlare ancora per la sua musica, e di questi tempi non è poco.
“Every thing I Do it’s Gonna Be Funky”, tuona Robben Ford nel pezzo d’apertura ma per fortuna, o purtroppo a seconda dei punti di vista, non vi è alcuna presenza massiccia di funky nel disco del chitarrista americano. “Bringing It Back Home”, si capisce dal titolo, è il ritorno alle origini di un artista che nasce nel jazz ma che nel blues ha trovato la sua consacrazione. Resta la formula vincente del connubio fra i due generi, con una marcata predilezione per i toni soffusi e le sonorità pulite che il jazz assume in tutte le sue forme. Un disco pervaso dai toni delicati, in cui non mancano sprazzi di ritmo (“You Go Your Way And I’ll Go Mine”, “Fair Child”) e che, un po’ a sorpresa, esalta le qualità della voce di Ford, per la quale il chitarrista sembra aver davvero trovato l’elisir di giovinezza. “On That Morning” sono i sette minuti più emozionanti di tutto il lavoro, autentiche atmosfere notturne dominate da un Hammond d’altri tempi, oltre che dalla delicata mano di Robben Ford. “Bringing It All Back Home” è il prodotto di un autentico maestro, capace di arricchire il proprio sound con mille tonalità dal jazz, allo shuffle fino all’uso dei fiati.
Abbiamo tentato di raccontarvelo, ma certi dischi vanno ascoltati in tutta calma e religioso silenzio, alla maniera di un vino d’annata. Fatelo vostro.