Liv Kristine
Enter My Religion

2006, Roadrunner Records
Pop Rock

Recensione di Marco Belafatti - Pubblicata in data: 05/07/10

Eccoci alle prese con uno storico personaggio del gothic metal, l'inarrestabile Liv Kristine Espenæs Krull. Per chi non la conoscesse, stiamo parlando di colei che con la propria band (gli storici Theatre Of Tragedy) diede inizio al movimento del cosiddetto "Beauty and the Beast metal" e che, tra collaborazioni con nomi più o meno noti del panorama metallico, tra un disco dei Leaves' Eyes (progetto gestito a quattro mani col marito Alexander Krull) e l'altro, ha trovato il tempo per comporre ben due album solisti (il terzo, "Skintight" uscirà tra poco più di un mese via Napalm Records). Il primo risultato di questa altalenante carriera fu "Deus Ex Machina", un gran bel disco partorito nel lontano 1998 che presentava un sound in linea con la scena gothic più eterea, oscura ed ambient in alcuni frangenti ma al tempo stesso tendente al dream pop.

Nel 2006 la bionda norvegese torna a cavalcare le scene con "Enter My Religion" (scritto e prodotto dall'ormai onnipresente marito), all'interno del quale il tocco gotico è stato praticamente rimosso, malgrado permanga una lontana reminiscenza, una particolare cadenza romantica che ammanta di malinconia alcuni brani dal flavour decisamente orientato verso le più piatte produzioni mainstream. Potremmo anche apprezzare il tentativo di uscire da certi confini, ma sin da un primo ascolto appare in maniera chiara il limite di un'opera un po' pretenziosa. Se l'intento della nostra simpatica coppietta era quello di creare un emulo delle varie Lene Marlin, Natalie Imbruglia e colleghe, tanto vale che i Nostri tornino a dedicarsi ai Leaves' Eyes, perché nessuno ha mai sentito il bisogno dell'ennesima stellina pop (questa, tra l'altro, è pure attempata). Se invece si voleva offrire ai fan una Liv Kristine depurata da chitarre pesanti e ricoperta da una veste musicale dal sofisticato fascino, il risultato è alquanto tentennante e discutibile. I punti a sfavore del disco non sono molti, sia chiaro, ma sono pochi pure quelli a suo favore. Ciò che pesa maggiormente è l'assenza di episodi memorabili, quelli che costituiscono l'essenza di un album pop, o che, in fin dei conti, decretano o meno il successo di una qualsiasi release.

Ad "Over The Moon" spetta l'arduo compito di introdurre l'ascoltatore all'interno di "Enter My Religion". Inutile dire che i fan di Liv non rimarranno spiazzati da questa traccia, lo stile canoro è inconfondibile. Tuttavia in confronto alle canzoni cantate dalla vocalist in altri frangenti questa sembra un autentico supplizio, nonostante sia stata composta da Peter Tätgren (Hypocrisy, Pain) ed impreziosita dalla performance di un gruppo piuttosto affiatato di strumentisti che per buona parte della durata del disco eviteranno di farci imbattere negli stereotipi delle hit da classifica infarcite di insensata elettronica. Le cose vanno decisamente meglio con "Fake A Smile", ventilata da un roseo candore acustico, decisamente godibile quando questo diventa un delicato sottofondo per il canto angelico della padrona di casa; nulla di memorabile ma almeno possiamo godere di un brano dignitoso ed ascoltabile. La successiva "All The Time In The World" è colma di gioiosa spensieratezza, ma regala un'interpretazione alquanto fiacca, che potrebbe benissimo essere surclassata da una qualsiasi delle ex Spice Girls... che vergogna! In "My Revelation" la nostra Liv accenna a spiragli operistici, supportata da tentazioni etniche, da un guitar riff piuttosto monotono e da una ritmica praticamente identica a quella di numerosi brani dei Leaves' Eyes (il ritornello sembra una scialba rivisitazione pop di "Legend Land")... Un altro disastro! "Coming Home" ricorda mille brani passati per qualche tempo in radio e presto finiti nel dimenticatoio (dai Sixpence None The Richer a Natalie Imbruglia, passando per Emma Bunton e Dido): eccovi servito un altro brano ninnananna. "Trapped In Your Labyrinth" sembra invece essere stata concepita (dal già citato Tätgren) come una canzone dei Leaves' Eyes con tanto di chitarre elettriche e batteria in evidenza. A livello compositivo nessuna novità, ma le romantiche emozioni suscitate dal brano confermano un risultato piuttosto gradevole rispetto agli standard dei pezzi precedenti (molto belli i contorni sinfonici, ammalianti e coinvolgenti le strofe e pieno di pathos il refrain). "Blue Emptiness" denota anch'essa una ritrovata verve, regalandoci suadenti note di pianoforte ed atmosfere sognanti, ma soprattutto tante emozioni (questo è un chiaro segno di come giocare in casa dia sempre i risultati migliori, anche nel caso di una squadra abituata alle "trasferte"). Che strazio però essere gettati a capofitto negli aspri territori di "You Are The Night", canzone degna della peggiore Britney Spears. A tanta bruttezza seguono la titletrack (che in quanto a cattivo gusto non vuole certo essere da meno rispetto alla traccia precedente) e la cover di "Streets Of Philadelphia" (Bruce Springsteen), che si fa gioco dell'originale maltrattandola a dovere. Subentra infine "You Take Me Higher" (la quale fa chiaramente il verso a Kylie Minogue) e a chiudere questa serie di alti (pochi) e bassi (troppi) ci pensa "For A Moment", piacevole parentesi dal caldo e passionale sapore argentino.

"Enter my religion" mostra come il frutto del lavoro dei due sposini, in un contesto pop rock come questo, non abbia prodotto nient'altro che un buco nell'acqua. Purtroppo gli episodi malriusciti di questo progetto sono troppi e anche quei pochi che si lasciano ascoltare non mostrano un grande margine di miglioramento. Da fan della bella norvegese quale sono, è un vero peccato constatare che, con questo modo di operare, Liv non otterrà mai il successo che le sue straordinarie doti canore meriterebbero.

I problemi di questo disco erano essenzialmente due: la distribuzione del disco affidata alla Roadrunner (una label praticamente devota al rock e all'heavy metal, all'epoca poco avvezza alla promozione di artisti "pop") e la produzione nelle mani di Alexander Krull, fin troppo propenso a riciclare sé stesso e quanto già fatto in compagnia della moglie per comporre qualcosa di piacevole, oppure troppo succube delle tentazioni mainstream per risultare sofisticato. Qui non si tratta nemmeno di apprezzare o meno il genere: gli appassionati si rivolgeranno sicuramente altrove, mentre coloro che amano la leggiadra ugola di Liv, dopo questa spiacevole parentesi, torneranno probabilmente ad ascoltare i vecchi Theatre Of Tragedy o, al massimo, i Leaves' Eyes. Non resta ci che sperare in un netto cambio di rotta con l'imminente "Skintight"...



01. Over The Moon
02. Fake A Smile
03. All The Time In The World
04. My Revelation
05. Coming Home
06. Trapped In Your Labyrinth
07. Blue Emptiness
08. You Are The Night
09. Enter My Religion
10. Streets Of Philadelphia
11. You Take Me Higher
12. For A Moment

Intervista
Anette Olzon: Anette Olzon

Speciale
L'angolo oscuro #31

Speciale
Il "Black Album" 30 anni dopo

Speciale
Blood Sugar Sex Magik: il diario della perdizione

Speciale
1991: la rivoluzione del grunge

Speciale
VOLA - Live From The Pool