System Of A Down
Toxicity

2001, American Recordings/Sony Music
Alternative Metal

Recensione di Lorenzo Zingaretti - Pubblicata in data: 16/05/11

“Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista”: luogo comune o verità assodata, sta di fatto che questa locuzione vale quasi sempre quando un gruppo si ritrova a dover dare un seguito ad un esordio che ha riscosso critiche positive ed è stato acclamato da gran parte del pubblico. In effetti i System Of A Down, band californiana dalle origini armene, avevano fatto il cosiddetto “colpaccio” con il loro omonimo lavoro, uscito nel 1998: erano riusciti a portare freschezza compositiva e originalità nel movimento alternative metal, frutto di una miscela che, a cavallo tra una pesante follia e melodie stranianti, valeva sicuramente la pena di essere presa in considerazione. Giusto tre anni dopo, appena entrati nel nuovo millennio, si ripresentano dunque sulle scene con questo disco, dal titolo “Toxicity”, pronti a reclamare di diritto un posto tra i big del genere.

Basta il primo momento dell’opener, “Prison Song”, per capire le intenzioni dei quattro: difficile non rimanere spiazzati di fronte a quel colpo all’unisono di batteria, basso e chitarra, stoppato immediatamente da una pausa. L’ascoltatore si potrebbe guardare intorno quasi come se pensasse ad un problema con il CD, ma dopo un attimo riecco i tre strumenti iniziare a costruire il riff portante del pezzo. E’ di nuovo pausa, ma da lì in avanti diventerà impossibile volgersi all’indietro, poiché si è entrati a pieno titolo nel disco e si viene travolti dall’andirivieni di pesantezza, sussurri vocali, melodie a due voci che caratterizzano poi gran parte dell’album. In effetti si può notare una sorta di linea che pervade tutto il disco, decisamente continuo nel suo incedere nonostante la gran parte dei pezzi contenga al proprio interno cambi significativi: l’abilità dei System Of A Down è quella di rendere quindi le canzoni singole, non tanto il disco, molto varie, evitando cali di attenzione nell’ascoltatore. Poi ovvio, il disco nel suo complesso è, come detto, compatto e decisamente coerente, ma in questa sede non si può non fare una menzione speciale a quelle che sono le perle riconosciute al suo interno: sto ovviamente parlando di “Chop Suey!”, “Toxicity” e “Aerials”. Canzoni che partono in maniera similare, con giri di chitarra pulita, per poi attentare alle orecchie con stacchi pesanti in cui la batteria la fa da padrone e chitarra e basso proseguono il loro viaggio congiunto tra riff stoppati e potenti, molto vicini a certe sonorità nu.

Anche qui comunque, ogni pezzo ha la sua personalità e solo nella struttura può ricordare a tratti gli altri citati: d’altronde si sta parlando di tre singoli che hanno devastato le classifiche, non solo quelle relative alla nicchia di genere, e lo hanno fatto assolutamente con merito. Prendiamo “Chop suey!”, esempio più classico del già citato connubio tra una pazzia dai lineamenti metal/hardcore (la strofa a livello ritmico ricorda le sfuriate per così dire “ignoranti” di certi gruppi vicini alla scena thrash) e una epicità melodica con pochi eguali in quanto a produzione di pelle d’oca (che sarebbe un ottimo metro di giudizio a livello musicale, se esistesse la possibilità di quantificarla), che non può non accendere qualcosa in chi ascolta. E lo stesso pezzo esprime al massimo l’essenza dei System Of A Down, nella duplicità vocale – fantastico il gioco di urla e sospiri nella prima parte, da brividi l’intreccio vocale nell’ultimo ritornello – e nel lavoro ritmico, su cui si è già insistito parecchio in questa sede. Prendete il tutto e applicatelo ad un disco che, pur non raggiungendo il picco della traccia in questione (non sarebbe stato umanamente possibile mantenere l’album tutto su questi livelli, pena il dovere di chiamare in causa il Superuomo di Nietzsche!), resta su un tenore difficile da toccare per la gran parte delle band che circolano nell’attuale scena alternative.  

Ebbene sì, perché “Toxicity” è un disco di quelli che cambiano la “storia”, seppure si stia parlando solo di musica. L’influenza su più di una generazione è innegabile, la sua presenza in quelle (per quanto opinabili, sono il primo a pensarlo) liste di album “you must own” è pressoché unanime; queste sono solo alcune delle spie della sua grandezza, il resto sta a chi ascolta, e non è poi così difficile venire convinti. Lasciatevi allora intossicare da “Toxicity”, perché solo ascoltandolo ripetutamente avrete accesso alla cura.





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