Esben And The Witch
Wash The Sins Not Only The Face

2013, Matador Records
Alternative Rock

Un nuovo viaggio per le vie più oscure e solitarie dell'alternative rock
Recensione di Riccardo Coppola - Pubblicata in data: 25/02/13

Una graffiante deflagrazione di accordi, poi subito lontani echi di arpeggi pizzicati. Una voce che, forte di un tremulo coraggio, annuncia la partenza di una spedizione verso luoghi ignoti, per scappar via da una desolazione certa. Nemmeno il tempo di schiacciare il tasto play, ed è con questo carico di tesa inquietudine che l’ascoltatore viene accolto da “Iceland Spar”, opening track di “Wash The Sins Not Only The Face”, prima tappa di un viaggio per lande desolate e spettrali, costantemente in bilico tra equilibrio e follia, tra reale e onirico.

Gli Esben And The Witch prendono il loro nome dal titolo di una fiaba danese, un pezzo di letteratura popolare che è però ben distante nello stile da quello di Andersen, rivelandosi un vero festival del macabro, tra gole tagliate e fanciulle infornate ancora vive e urlanti. Una tale premessa rende certamente difficile immaginarsi temi ilari e giocosi, e appunto le lyrics del secondo lavoro della band inglese sono cupe, ombrose, spesso impenetrabili nella loro ermetica tetraggine. Testi profondi e linguisticamente ricercatissimi, con un sapiente uso della metrica, che prendono parecchio spunto da una letteratura, quella inglese, storicamente incline a scatti di pazzia e morbosità: si riconoscono, su tutti, il poetico surrealismo di T.S. Elliot, o l’esasperato romanticismo di Emily Brontë. In tutte le canzoni su un sostrato grigio e malinconico spicca, vivido, l’ardore di pulsioni primigenie: passione amorosa, violenza sanguinaria, spesso un’unione indissolubile di entrambe. Così il testo di “Deathwaltz”, designata come canzone più rappresentativa dell’album in quanto singolo principale, descrive un innamoramento facendo uso a tal scopo, metaforicamente, di un dettagliato e sanguinoso campionario di ferite da taglio; così un triste addio viene dipinto in “The Fall Of Glorieta Mountain” tramite la descrizione di un paesaggio immaginifico (“Shrapnel stars puncture brightly, wounding skies that stretch so widely, over dunes of dust in shades of rust, where shadows claim the both of us”) in quello che è l’episodio liricamente più riuscito dell’album.

Protagonista assoluto dell’album, il cantato di Rachel Davies suona antico e sacerdotale, una voce ben lontana da una plastica perfezione, ma estremamente affascinante ed espressiva. Strascicata e addolorata in “Slow Wave”, nella percezione obnubilata di un sogno a occhi aperti, in un crescendo emotivo che passa dal desiderio di non svegliarsi a un disperato appello d’aiuto finale, acuta e tagliente nel crudele rituale di “Putting Down The Prey”, monocorde ma avvolgente in “Shimmering” e “Yellow Wood”. Una voce che duetta spesso con se stessa, riverberata e moltiplicata in cori ora armoniosi ora fortemente dissonanti, che fanno prender vita ai versi, facendoli suonare come passaggi di arcane formule magiche.

Strumentalmente ci si trova davanti a un lavoro che deve parecchio ai Gathering inteneriti d’inizio millennio (molte soluzioni vocali e le chitarre più morbide fanno pensare a Souvenirs, ripulito però dei suoi elementi trip rock), non privo di momenti di incattivimento di stampo decisamente noise. Notevole anche l’influenza dei mostri sacri del post-rock: certe sonorità, in particolare nell’epica, conclusiva “Smashed To Pieces In The still Of The Night”, ricordano tantissimo gli If These Trees Could Talk del debut album. Non è, comunque, un disco innovativo o dotato di highlights strumentali: i membri della band mantengono un profilo dignitoso senza proporre alcun virtuosismo, il drumming è pulito ma mai invadente, il basso è relegato a un mero compito di accompagnamento, le chitarre sono ovattate come tradizione insegna. E volendo guardare più nel dettaglio, c'è qualche momento di stanca, qualche canzone meno riuscita delle altre, che fuori dal contesto in cui si trova potrebbe suonare davvero poco interessante.

Ma “Wash The Sins Not Only The Face” è un nerissimo fiume di emozioni inciso su disco, tre intensissimi quarti d’ora di sonorità che incantano e avvincono, un armonioso mosaico che affascina con quella grazia surreale che è posseduta soltanto dell’arte oscura e decadente. E come nella contemplazione di una tela romantica è il maestoso colpo d’occhio a rapire lo spettatore, rendendolo incapace di soffermarsi sulla singola pennellata, così il disco degli Esben and the Witch va gustato nella sua interezza, tutto d’un fiato, così che una fredda analisi ‘tecnica’ dei dettagli dei singoli pezzi diviene del tutto superflua, e ci si dimentica subito di ogni piccolo difetto. Dunque spegnete la luce, perché alla stregua di un racconto di streghe e fantasmi questo disco dà il meglio di sé se ascoltato al buio e nel silenzio più assoluto, indossate le vostre cuffie, chiudete gli occhi. Lasciatevi stregare anche voi. Non ve ne pentirete.



01. Iceland Spar
02. Slow Wave
03. When The Head Splits
04. Shimmering
05. Deathwaltz
06. Yellow Wood
07. Despair
08. Putting Down The Prey
09. The Fall of Glorieta Mountain
10. Smashed To Pieces In The Still Of The Night

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