Arthemis
Back From The Heat

2005, Underground Symphony
Power Metal

Recensione di Gaetano Loffredo - Pubblicata in data: 09/04/09

Andrea Martongelli, leader storico dei veneti Arthemis, dimostra per l’ennesima volta che, oltre ad essere un chitarrista dotato di qualità tecniche invidiabili, è un abilissimo e smaliziato riffmaker capace di comporre, missare ed arrangiare un album seducente e delizioso che porta il nome di, segnatevelo, "Back from the Heat".
Vi piace il power metal alla Dragonforce ma preferireste un po’ meno velocità e soprattutto un suono di chitarra “appena” più grezzo ed imponente? Bene, vi presento questa tosta formazione tutta tricolore scritturata sei anni or sono da un’etichetta ormai affermata, l’Underground Symphony, abile nel farla crescere sotto l’affettiva ala protettrice e conscia delle enormi potenzialità soltanto intraviste nei tre album pubblicati prima del neonato.

Gli Arthemis nascono come la stragrande maggioranza dei gruppi in circolazione, cominciando a muovere i primi passi (1994) come cover band di Megadeth, Iron Maiden, Sacred Reich alternando i pezzi dei mostri sacri a quelli auto-prodotti.
Undici anni di attività sono il fiore all’occhiello di una formazione esperta ed efficace e, il full length che andremo ad esaminare, dispone di un repertorio musicale tanto semplice ed intuitivo quanto produttivo ed azzeccato, con l’ensemble che sguazza allegramente nei ruscelli limpidi ed incontaminati del power metal più melodico impreziosito da elementi old-style.
Undici anni dicevamo, tempo utile  per salire sullo stesso palco di Stormiwtch, Ian Paice, Hammerfall, Anthrax, Slayer, Grave Digger, Children of Bodom, White Skull, Malmsteen, Domine, tempo utile per una paio di apparizioni su Rock Tv (settembre 2002 e maggio 2003) e tempo utile per intravedere la luce in fondo al tunnel denominato “underground” con Return to the Church of the Holy Ghost (ora in re-inciso ed in ristampa), The Damned Ship e Golden Dawn.

Stupisce la fase vocale di Alessio Garavello che supera in scioltezza la performance offerta nel precedente dischetto curando maggiormente l’impostazione ed evitando di eccedere con gli acuti ma, il vero passo in avanti, è offerto dal songwriting che regala ad ognuno dei 10 brani uno stampo personale e riconoscibile.
La quaterna “d’apertura” travolge le tre precedenti produzioni e, se Rise Up From The Ashes avrebbe potuto facilmente diventare un singolo apripista, l’helloweeniana Only Your Heart Can Save Us si lascia godere nella totalità dei quattro minuti che la compongono facendo presumere prima e rivelando poi, un lavoro sulle “asce” tutt’altro che scontato e superficiale.
Il pezzo che mi ha letteralmente sbaragliato si intitola Free Spirit ed è dotato di un favoloso riff di chitarra dal sapore hard rock anni ’80 condensato amabilmente con gli ingredienti del power metal statunitense: touchè.
Il treno non ha intenzione di fermarsi e la Tempesta del Deserto è pronta ad accompagnarlo sino a destinazione inspirando l’aria utile per il potentissimo soffio che sradica l’orecchio umano, al secondo minuto esatto, con un guitar solo roboante e completando l’opera con un ritornello che il vocalist letteralmente si divora.
Un pochino meno ispirate del resto Star Wars e Touch the Sky, si riparte con un missile sottotitolato Here Comes The Fury, altra top song indiscussa nonostante di semplicissima costruzione, capitanata, questa volta, dalla batteria di Paolo Perazzani che tra cambi di tempo ed energiche sfuriate guida i compagni di viaggio lungo il prorompente percorso intrapreso.
Un indovinato momento di tranquillità con la dolce Ocean’s Call è il preludio alla scoppiettante doppietta finale aperta da un brano atmosferico come The Vampire Strikes Back, e chiusa con criterio, esattamente come il nostro viaggio era cominciato: altra single song; questa volta è Thunder Wrath a deliziare i palati fini.
 
A onor del vero, mai avrei sperato in un disco simile, fresco, pulito, efficace sotto ogni aspetto. Difetti, se ce ne sono, possono essere ricercati nella già esaminata debole doppietta centrale e nell’utilizzo “esagerato” della doppia cassa ma, ci troviamo di fronte alla classica ricerca del “pelo nell’uovo”…
A chi, come me, apprezza il genere che vedete lassù in alto scritto in piccolo,  consiglio di non soffermarsi troppo su questa recensione, piuttosto si riversi a “colpo sicuro” su un disco che deve girare sui lettori ed ogni tanto (saltuariamente) riposare sugli scaffali. Fatemi sapere.



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