Dan Auerbach
Keep It Hid

2009, Nonesuch
Rock

Recensione di Giovanni Capponcelli - Pubblicata in data: 18/06/09

L’album solista del chitarrista dei Black Keys era solo questione di tempo. Auerbach coglie l’occasione dell’apertura del nuovo studio di registrazione ad Akron (Akron Analog) per dare alle stampe il suo primo lavoro senza l’amicone Pat Carney alla batteria; la formazione non può che allargarsi con Bob Cesare, Dave Huddleston, James Quine, Jessica Lea Mayfield, Rob Thorsen e Mark Neill: ognuno dei quali da il suo piccolo contributo attorno al giganteggiare chitarristico e “ingenieristico” di Auerbach, che suona “tutto il resto”, come scritto nelle note di copertina. Niente paura per i fan dei Black Keys: il gruppo continuerà a suonare assieme e, soprattutto, la musica e il progetto di “Keep it hid” è in buona continuità con il sound del duo. Certo Auerbach, più libero di sperimentare, passa qui in rassegna un ampio spettro di generi: se la base del songwriting resta il blues, il chitarrista si ritaglia ampi spazi nel country delle origini, nel rock classico americano, anche nel folk e nel punk di Detroit: una tendenza che era peraltro già rintracciabile nell’ultimo lavoro dei Black Keys: Attack & Release (Nonesuch 2008). Ricorda Auerbach “This record is a mixture of things I like to listen to, psychedelia, soul music, country armonies”. Tutto sotto un pesantissimo manto di produzione “alternativa”, o meglio, vista l’etichetta che distribuisce, indipendente. Tutti i tratti, a volte i trucchi, delle produzioni “indie” sono messi in campo: abbondanti suoni d’ambiente, sound grezzo, filtrato, chitarre stratificate, bassi saturi, perfino qualche sconfinamento nel noise. Insomma un garage di lusso, perché in realtà la produzione e perfetta nella sua approssimazione. Auerbach spadroneggia con voce (monocroma, ma perfetta per la parte) e chitarra: per questo strumento il discorso è un po’ diverso, perchè a differenza di altri musicisti, che magari nascondono una tecnica approssimativa dietro il saio di “artista alternativo”, Auerbach è veramente bravo: bravo a usare gli effetti, bravo a cambiare stile e genere, bravo nell’iperelettrico ma anche nel folk acustico. Il degno rivale del collega Jack White. Come era già tendenza dei Black Keys la scaletta è sterminata e propone addirittura 14 pezzi, divisi simmetricamente tra i due “side”: visto che l’album è uscito anche in LP mi piace pensare che Auerbach abbia composto la scaletta in funzione del vinile; sicuramente il lato A è più delicato, con ampie parti acustiche e, in generale, un sentimento, direi famigliare (all’album ha collaborato, come autore, anche il padre di Dan) e addirittura religioso, diffuso e variegato: del resto la foto di copertina fa pensare ad un mormone che imbraccia per la prima volta una chitarra piuttosto che ad un musicista esperto. Il lato B per contro è un attacco elettrico a tratti veramente imponente. La confezione è un digipack spartano, con una copertina volutamente “rovinata” come un paio di jeans stracciati: passabile; il booklet, con i testi di tutte le canzoni, è corredato di foto molto “musicali”.

"Trouble Weighs a Ton" apre il disco con un giro acustico da Grande Depressione ma molto accattivante, sembra una reincarnazione di Woody Gouthrie degli anni 2000 cantato da Springsteen: anche il lessico è quello delle canzoni folk o country blues del proletariato vagabondo di ormai 70 anni fa (Trouble in the air/Trouble all I see/Does anybody care/Trouble killin' me/Whoa, it's killin' me). Il brano lascia una scia di malinconia agreste, ma niente paura: "I Want Some More" e "Heartbroken, In Disrepair", in coppia, sono una summa del garage degli ultimi 10 anni: suoni filtrati, batteria tribale, chitarre multistrato. La prima sfavilla per un ritmo jungle alla Bo Diddley doppiato sommessamente da un Hammond serpentiforme nello stile swamp che fu di Dr. John. "Heartbroken, In Disrepair" vede Auerbach impegnato in una chitarra piena di fuzz e riverbero, più elettronica che elettrica: in generale una seriosa riproposizione dei meccanismi Jon Spencer, dai Pussy Galore alla Blues Explosion: prendere una canzone blues o rock n’ roll e ricoprirla di quintali di produzione alternativa. Because I Should è un divertissement di noise rock da 50”, tanto per ribadire che non ci interessano le classifiche di vendita: excusatio non petita. "Whispered Words (Pretty Lies)" è un crescendo che parte in sordina con quegli accordi di chitarra ripetitivi, a botta e risposta con la voce: ma il pezzo cresce, si srotola anche con il supporto della batteria e delle chitarre che vanno aumentando il voltaggio; poi la soluzione di classe: quando il brano sembra finito, scoppia invece in una coda strumentale finale. Influenza nascosta e intrinseca nel tipo di produzione, ma da non sottovalutare: la psichedelia, che emerge dagli effetti delle chitarre, dai bassi rotondi e profondi, anche dalla voce, a tratti. "Real Desire" è una ballatona rilassata da “classic rock”, resa con efficacia ma a tratti ridondante. La chiusura del side A e l’apertura del B, cioè il cuore del CD, sono forse i pezzi migliori e apparentemente più distanti tra loro. "When the Night Comes" è il gioiello acustico del lavoro, accompagnato da un tappeto di mellotron e da una linea vocale a tratti struggente e costantemente trasognata, come un amore immaginario che finisce: un Nick Drake yankee (When the night comes/The headlines read/Whatevers in your dreams).  "Mean Monsoon" è al contrario la canzone più sfuggente e meglio arrangiata dell’album, con una batteria dispari  da cabaret scalcagnato e la linea vocale di un crooner consumato: una canzone che potrebbe essere Tom Waits in versione indie. Entrambi i pezzi condividono lo sfondo “meteorico” (il tramonto, il monsone, la pioggia) che diventa stato d’animo: bello. "The Prowl" è la più “black keysiana” del lotto, figlia legittima della When the lights go out su Rubber Factory: la chitarra di Auerbach ha ormai acquisito negli anni una sua voce ed una sua fisionomia ben riconoscibili; la title-trak (di nuovo in pura zona Black keys) più di ogni altro pezzo sfoggia questa voce e questa fisionomia, a livelli giganti, che ricoprono, strato su strato, l’imprescindibile nocciolo blue-rock. "My Last Mistake" è un pop-rock scanzonato, orecchiabile e un po’ retrò nel doppio assolo, ma fresco e ben suonato. "When I Left the Room" è un pachidermico slow-blues, zeppo di parti per chitarre varie, come un Chris Isaak sotto anabolizzanti; un bell’assolo distorto, ed una parte centrale sommessa e silenziosa, prima dell’esplosione finale. A questo punto, "Street Walkin'", di fatto una cover di 1969 dal primo LP degli Stooges di Iggy Pop, arriva quasi inaspettata: ma l’interpretazione è ottima, l’uso del wha-wha nel finale molto efficace e il testo sembra uscito dal taccuino di Bon Scott (Beggin bums soda pop/Yankee tickets, bottle tops /mini skirts,magazines/ out on the street it's a living dream). Chiude la quiete acustica e pastorale di "Goin’ home": un carillon a vento che ritrova l’intimismo famigliare del primo brano; il cerchio è chiuso.

Un album rigoroso, nel suo essere fieramente indipendente, personale; nel cercare la legittimazione nella musica della tradizione. Un disco molto americano. A volere essere pignoli, potremmo dire che a tratti la musica manca di dinamica, di suspance, a volte è un po’ enfatica, a volte pare fin troppo “programmata”; ma ce ne dimentichiamo subito, visto che il “programma” è veramente interessante.



01. Trouble Weighs A Ton
02. I Want Some More
03. Heartbroken, In Disrepair
04. Because I Should
05. Whispered Words
06. Real Desire
07. When the Night Comes
08. Mean Monsoon
09. The Prowl
10. Keep It Hid
11. My Last Mistake
12. When I Left the Room
13. Street Walkin'
14. Goin' Home

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