Explosions In The Sky
Those Who Tell The Truth Shall Die, Those Who Tell The Truth Shall Live Forever

2001, Temporary Residence
Post Rock

Recensione di Federico Botti - Pubblicata in data: 23/12/09

Chi non conosce i texani Explosions In The Sky o semplicemente è un po’ digiuno di post rock, ascoltando il presente lavoro (per non parlare comunque di tutti gli altri loro album), potrà uscirsene, dopo qualche canzone, con un’idea di monotonia, di generale ripetitività dei pezzi, un senso di mancanza di sintesi che potrebbe ben presto fargli mollare l’ascolto. Grosso errore.


I dischi di questi quattro ragazzi sanno essere, per chi sa apprezzarli e farli propri, veri e propri amici nel momento del bisogno, calde coperte fatte di note che sanno riscaldare anche il più freddo dei cuori, care memorie che ti sovvengono nel momento del bisogno e che ti ricordano che tutto è normale, tutto “fa vita”, anche le cose più spiacevoli, che prima o poi passeranno.

Andando al sodo questo “Those Who Tell The Truth Shall Die, Those Who Tell The Truth Shall Live Forever” (titolo chilometrico ma che colpisce diretto, come molti di quelli dati  ai propri pezzi dalla band) è un quasi-continuum strumentale (solo alcune canzoni non sfociano direttamente nelle successive), costruito con gli stessi mattoni che da sempre usano gli Explosions In The Sky: giri di chitarra e basso spesso semplici ma mai banali, strumenti ora arpeggiati, ora lasciati liberi di evolversi in scariche elettriche che squarciano la serenità sino allora creata, dando origine a tempeste sonore che sbalordiscono, tale è la loro forza e intensità. Il post rock è così, somma di piccoli elementi che vengono fuori alla lunga, si appoggiano gli uni sugli altri per creare solide strutture che possono essere in grado di sconquassare emotivamente anche il più saldo degli animi. Il paesaggio melodico è comunque incorniciato da un potente lavoro di basso/batteria, che sanno dare concretezza e stabilità al tutto, onde evitare che si perda in inutili frivolezze.

Data la natura del lavoro, con brani che vanno a fondersi tra loro, ha poco senso identificare canzoni più rappresentative. Preferisco invece pensare che il disco viva di momenti, come un quadro impressionista, che cerca di catturare la vita che fugge (e nel caso del disco, ci riesce alla grande). La soggettività nel sentire proprie alcune canzoni quindi la fa da padrona: mi sento comunque di alzare di un gradino sopra le altre “Greet Death”, “The Moon  is Down” e “Have You Passed Through This Night”, ma sono ben consapevole che ognuno saprà trovare il “suo” pezzo in questo bellissimo album.

Perché di questo in fondo si tratta, di un lavoro splendidamente cesellato da un orafo che, all’occorrenza, si trasforma in  un ruvido non-finito michelangiolesco: imponente, maestoso e tutto da scoprire perché carico di significati da trovare.





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