Zeromancer
The Death Of Romance

2010, Trisol
Industrial

Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 05/03/10

2 Anni, 6 Mesi e 25 Giorni.
Ecco quanto ci mette, secondo quanto affermato da recenti statistiche, un matrimonio a morire.

I norvegesi Zeromancer, a neppure un anno dall’ottimo “Sinners International”, tornano sul mercato con un album che celebra, per l’appunto, questo concetto di morte dell’amore che, ciononostante, non coincide necessariamente con la morte della vita (”The death of you and me, is not the end you see”, canta seducente Alex Møklebust lungo la titletrack).

Partiamo subito seccamente dicendo una cosa: nonostante l’autore di musica e testi degli Zeromancer, il bassista Kim Ljung, in sede di intervista ci abbia confermato come l’attesa infinitesimale tra questo episodio discografico ed il precedente sia dovuta alla grande energia in seno alla band, costretta al silenzio per 6 lunghi anni tra il terzo album in studio “ZZYZX” e “Sinners International” - energia che, difatti, si percepisce in maniera palpabile lungo l’ascolto del disco -  non posso fare a meno di notare come, rispetto all’album precedente, questo risulti meno riuscito.
Tutta colpa di pezzi interlocutori come il mid-tempo di “The Pygmalion Effect”, piuttosto che la debole “The Plint”, oppure ancora di brani dotati di un'enorme potenzialità che non viene tuttavia completamente espressa dalla band (come l’ossessiva traccia iniziale “Industrypeople”, piuttosto che il groove ‘80s dal vago sapore EBM di “Murder Sound”).

Bene, detto questo è innegabile come su questo album, oltre all’energia degli Zeromancer, si trovi una certa maturità e freschezza, elementi che da sempre caratterizzano la musica di questa band. Per chi ancora non lo sapesse, gli Zeromancer possiedono questa rara capacità di fondere lo spirito rock melodico tipicamente scandinavo con la follia che regna nella scuola industrial americana (Nine Inch Nails tanto per fare un nome noto) condendo però il tutto anche con uno smaccato spirito elettronico di stampo europeo.
Ascoltate la meravigliosa chitarra piangente sulla titletrack, piuttosto che il ritmo mansoniano di “The Hate Alphabet” – pezzo magnificamente autodistruttivo basato sui libri di James Ellroy – e vi accorgerete che non è certo una proposta acerba quella offerta dalla band, e quando arriverete a “Virgin Ring”, capolavoro dell’album, vi ritroverete piacevolmente affogati in un vortice di melodia sanguigna, perfettamente innestata in un groove a dir poco travolgente ed una programmazione dei synths praticamente perfetta.
Ancora, impossibile per me non citare la ballata decadente e crepuscolare di “Mint”, inno funebre confezionato per il matrimonio dell’amico e produttore John Fryer (uomo dietro la consolle di HIM, Nine Inch Nails e Depeche Mode), piuttosto che la corrosiva acidità di “Revengefuck” (meraviglioso gioco di parole che a Kim esce sempre molto bene, nell’espressione lirica dei suoi testi costantemente sospesi tra torbida lussuria ed amore scarlatto).

Rivedendo il tutto, devo dire che la conclusione di questa recensione mi viene piuttosto naturale: avrete certamente capito che “The Death Of Romance” non è affatto un brutto album – nel modo più assoluto! – tuttavia è innegabile che la sua capacità di penetrazione è decisamente inferiore rispetto a “Sinners International”, tanto che mi viene da dire che chiunque si senta intrigato dalla band, senza conoscerla, deve partire proprio da “Sinners International”, per passare soltanto in un secondo momento a quest’ultima fatica discografica.
Per chi è già fan, invece, una piacevolissima conferma che non deluderà affatto le aspettative nei confronti di una band che, giorno dopo giorno, continua a generare un grande interesse attorno a sé... Ed è tutto meritato.



01. 2.6.25
02. Industrypeople
03. The Hate Alphabet
04. The Death Of Romance
05. The Pygmalion Effect
06. Murder Sound
07. Revengefuck
08. Virgin Ring
09. The Plint
10. Mint
11. V

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