Nulla però vieta a Carla e Heidi di fare del loro meglio per suscitare scalpore. Ed ecco allora arrivare i Butcher Babies, dagli Stati Uniti, a riprendere lo spirito del "I don't give a fuck", di Wendy O. Williams, e tradurlo in un heavy metal dalle forti tinte alternative e thrash. E sì, vanno anche sul palco praticamente nude. E che male c'è?
Il primo album uscito due anni fa, "Goliath", non entusiasmò. O meglio, divise pubblico e critica. In molti infatti considerarono la band l'ennesima meteora e il disco una release di scarsa importanza, buono solo ad attrarre pubblico grazie al "fattore f***" (con riferimento a una delle più antiche leggi del mercato, ovvero quella del proverbiale carro di buoi), mentre altri apprezzarono "Goliath" proprio per il suo saper essere decisamente grezzo e diretto, senza fronzoli e arzigogoli, quasi più hardcore punk che metal. Ma i Butcher Babies fanno la mossa giusta: se ne fregano della critica e tornano alla carica convinti.
Per quanto "Take It Like A Man" non possa ancora essere definire maturo, e inoltre soffra di un certo complesso nei riguardi delle band a cui i Butcher Babies si ispirano, fa però sentire un certo movimento. Si va più veloci e tirati, l'elemento thrash spesso prende il sopravvento su quello alternative, o heavy, e si sente meno quell'alternanza tra voce pulita e scream che aveva distinto il primo "Goliath". Di tanto in tanto spunta pure un breakdown alla In This Moment dei bei vecchi tempi in cui Maria Brink ci dava di scream e basta, oppure sembra che siano Jim Root e Mick Thompson a suonare le chitarre. Volendola dire tutta, la frenata centrale di "Thrown Away" ricorda perfino i Lacuna Coil di "Comalies". Ce n'è un po' per tutti i gusti insomma, poco ma sicuro, ma quel che c'è risulta a dir poco godibile.
Tornando a infilare il dito nella piaga delle sindromi di cui sopra, "Take It Like A Man" è un disco discontinuo. Per un paio di canzoni pare prendere una direzione più heavy, poi torna più thrash, poi salta sul nu per altri due o tre brani e infine ricomincia daccapo. Insomma, manca di organicità ed è come se fosse stato scritto a scaglioni, in stadi molto differenti della vita della band. Sicuramente questo aumenta la varietà della proposta, ma resta il fatto che questi dodici brani paiono presi da sei o sette fonti diverse.
Detto questo, al secondo tentativo, i Butcher Babies si assestano oltre la sufficienza, con una release non eccezionale ma per nulla banale. Poteva andare meglio, e si sente decisamente la necessità che la band si spinga oltre le proprie influenze ma, se siete in grado di non lo prenderlo troppo sul serio, è un disco che vi saprà intrattenere.