Jinjer
Macro

2019, Napalm Records
Progressive Groove Metal

Recensione di Ludovica Iorio - Pubblicata in data: 05/11/19


L'energia dirompente degli ucraini Jinjer ha smosso negli ultimi anni il terreno del metal, la cui solidità degli strati, sapientemente apposti dalle band più classiche del genere, è stata fortemente messa in dubbio: la varietà nella sperimentazione dei generi (dal djent al soul passando per jazz e reggae, solo per citarne alcuni), e la camaleontica voce della femme fatale Tatiana Shmailyuk capace di passare dal growl al clean in un battito di ciglia sono ingredienti imprescindibili di una formula che non può far altro che incuriosire prima e sbalordire poi l'ascoltatore.

L'EP "Micro" uscito lo scorso gennaio ha gettato il seme per il raccolto rigoglioso qual è "Macro": la potenzialità del primo lavoro è sbocciata ampliamente nell'ultimo sia nello sviluppo delle sonorità che delle tematiche trattate, accomunati da una maturità artistica invidiabile per la precocità e gli enormi risultati conseguiti fatica dopo fatica.



Il "Macro" - cosmo racchiude all'interno di sé nove corpi celesti, e ognuno brilla per le proprie peculiarità. L'opener "On the Top" può essere considerato il manifesto dell'etica lavorativa dei Jinjer, il volersi schierare apertamente contro l'atteggiamento materialista di chi persegue i propri scopi nel nome del successo e del denaro: è, alla resa dei conti, una lotta contro se stessi in cui il raggiungimento della vetta viene vanificato dalla caducità della vita, e il crescente e smorzato palm muting di basso e chitarra in levare rispettivamente di Eugene Abdukhanov e Roman Ibramkhalilov riescono a dare piena voce al concetto. "Pit Of Consciousness" invece sposta l'obiettivo verso il singolo e la propria integrità mentale. Le parole della poetessa inglese Emily Dickinson sembrano riecheggiarvi:



"La mente ha corridoi molto più vasti di uno spazio materiale, ed è assai più sicuro un incontro a mezzanotte con un fantasma esterno che incontrare disarmati il proprio io in un posto desolato"




A fare da sfondo all'incontro-scontro con i propri demoni è un'atmosfera bruciante e soffocante, e i momenti di rallentato ne appesantiscono ulteriormente il clima affinché il rabbioso cantato sorretto soprattutto dai martellanti colpi di grancassa e dall'utilizzo del rimshot da parte di Vladislav Ulasevish stordisca e metta a tacere (almeno per un attimo) la partita, che rimane comunque sempre aperta.
La sperimentazione tanto declamata non tarda ad arrivare: le vibrazioni reggae che permeano "Judgement (& Punishment)" si mescolano a quelle più propriamente deathcore in un deciso ma allo stesso tempo piacevole intruglio magico, frutto della formula di cui sopra. Ma quello in Giamaica è solamente un salto, poiché con "Retrospection" e successivamente "Home Back" si viene catapultati immediatamente in terra ucraina. I due brani riassumono il dualismo realtà/illusione inquadrabile nella drammatica situazione geopolitica in cui riversa da circa cinque anni l'est del Paese e in modo particolare la regione di Donetsk da cui provengono i nostri: una vera e propria guerra tra persone accomunate dalla stessa cultura ma divise dall'ideologia, dove sono (come sempre accade purtroppo) i civili a pagarne le pesanti conseguenze. "Retrospection" inizia con una dolceamara introduzione in lingua che pare un frammento di un canto popolare della tradizione slava: "Chi ti ha nutrito? La tristezza è stata resa più allegra dall'amore?". L'atmosfera da sogno dei bei tempi di pace andati viene presto infranta: il "ritorno a casa" mette di fronte all'evidenza che, ad esempio, quello che può sembrare all'orecchio l'incantevole canto di una sirena è in realtà il suono di un'ambulanza, e la costruzione dei vari giochi di parole è accompagnata dagli improvvisi ma giustificati cambi di ritmo e stile, fino a toccare tonalità jazz anni '20.
Il bridge acustico di "Pausing Death" non sembra dare tregua al resto del brano, e il presagio di morte percepito si realizza effettivamente in "Noah" che racconta, dalla prospettiva di un detrattore, la tragica fine del mitico personaggio e della sua arca, in una dimensione completamente rovesciata rispetto a quella biblica: il diluvio universale inonda l'imbarcazione con tutto il suo equipaggio, e la potenza dei riff in minore combinata con l'orchestrazione ad archi rendono degna giustizia alla narrazione.

Quasi a chiudere il cerchio, il full-length si ricongiunge al precedente EP con dei collegamenti veri e propri. "The Prophecy", erede legittima di "Ape", tratteggia l'involuzione dell' essere umano contraddistinta da saccenza, prepotenza e ingratitudine nei confronti del suo creatore: la voce di Tatiana qui si fa volutamente più grezza, richiamando all'orecchio i primi lavori in cui è evidente l'ispirazione alla collega Sandra Nasic dei Guano Apes, inframmezzata da un omaggio targato soul bianco all'indiscussa regina Amy Winehouse; e infine "IainnereP", riproposizione in chiave prevalentemente strumentale (e palindromica) della già maestosa "Perennial" in cui i sintetizzatori creano un mantello avvolgente impreziosito da tocchi gentili sui reali strumenti.

"Macro" rappresenta dunque l'ennesima conferma di un risultato lavorativo (in primis su loro stessi) da parte una band che riesce a fare della molteplicità la propria unicità. Se già in "King Of Everything" si era riusciti ad apprezzare la pulizia nel cantato e nel sound (mentre lo strascico di sporco aveva lasciato un segno nei primi due album, senza però intaccarne la veracità), è con Micro-Macro che i nostri fanno un ulteriore passo in avanti. Non sappiamo quali territori ancora inesplorati attraverseranno prossimamente: la loro bellezza risiede probabilmente in un'aperta scommessa con l'imprevedibilità, a cui ci hanno pazientemente abituati.




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