Mumford & Sons
Wilder Mind

2015, Island
Pop Rock

I serpenti mutano la pelle, gli agnelli belano
Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 20/05/15

Si dice che gli oggetti della controversia siano sempre i più interessanti. A prescindere dalle ragioni o dai torti, le opere e gli autori che dividono, e che fanno discutere, sanno catturare in modo unico l'interesse di chi usufruisce del mezzo artistico oggetto della discordia. Nel caso della "premiata" ditta Mumford & Sons, l'unico motivo di interesse e ragione di esistere plausibile per questa band deve essere necessariamente questo: l'essere sempre al centro di accesi dibattiti.

 

Sia chiaro: non si può negare che innestare le derive festose del folk celtico - con grancassa e banjo in costante primo piano - su una struttura country pop fosse un colpo di genio, aprendo la strada verso una deriva musicale che, negli ultimi anni, è forse un po' sfuggita di mano (si veda, a mero titolo d'esempio, lo scadimento verticale delle ultime First Aid Kit, che con la band di Marcus Mumford hanno ben più di un punto in comune), ma è pur vero che tale idea era sufficiente per coprire una manciata di brani al massimo, non 25 pezzi per due dischi identici in carriera.


Eppure, una fetta consistente di pubblico e critica non voleva sentire ragione, eleggendo il quartetto inglese quasi ad un ruolo di demiurgo della musica tutta, un'ondata di entusiasmo pari ed uguale alla forza che, per contro, si muoveva opposta ai Nostri, fra recensioni al limite dell'imbarazzo ed un disprezzo sferzante serpeggiante tra i social network.

 

"Wilder Mind", quindi, assume un ruolo a dir poco cruciale nella stoica impresa di tentare di fare un po' di chiarezza all'interno del contrastato quadro d'opinione che circonda i Mumford & Sons, una criticità ancora più significativa, visto che la band ha recepito in pieno l'unica oggettività di fondo che si poteva loro muovere contro: un altro disco sulla falsariga di "Sigh No More" e "Babel" non sarebbe stato tollerato probabilmente da nessuno, mettendo sin troppo a nudo una debolezza artistica di fondo che, prima di questo disco, si poteva soltanto ipotizzare.

 

Ed i Mumford & Sons, in questo senso, non si sono tirati certo indietro.

 

Ci dicono che banjo e grancassa sono le uniche due cose che sappiamo suonare? Ottimo, le eliminiamo completamente. E non solo: chiamiamo James Ford alla produzione (l'uomo a cui Florence Welsch ed Artcic Monkeys devono molto del loro successo e consenso negli USA) e, prendendo come base un mood crepuscolare proprio della wave ottantiana, stravolgiamo (quasi) in toto la nostra musica, a partire proprio dagli arrangiamenti, e stavolta ve li facciamo splendidamente morbidi ed elettrici.

 

Se al tentativo non si può che plaudire a prescindere, c'è da dire che gli esiti dell'operazione suonano assai meno rivoluzionari di quanto non appaiano nelle intenzioni declamate dal singolo apripista "Believe", dove un nervo rock U2 si sposa alla perfezione con una certa emotività alla Coldplay. No, non lasciatevi ingannare da questi altisonanti nomi del mainstream: qui il faro guida del quartetto è stato semmai la grande tradizione del country Americano, un'esplorazione intimista ed oscura che richiama sin troppo palesemente i The War On Drugs di Adam Granduciel, riletti tuttavia con un'estrema ed intenzionale ottica semplicistica assai vendibile in chiave pop.

 

Ed è questo il problema.

 

Al di là di tonfi dilettantistici come ballad buone per i momenti intimisti di una comedy stile "Scrubs" ("Cold Arms"), il problema di questo disco è il tono svilente con cui viene trattata la canzone Americana, tra arrangiamenti triti (Bruce Springsteen è un po' che suona in giro senza mollare la presa), testi banali (seppure ricchi di metafore che - ad onor del vero - sanno comunque tanto di già letto quanto la musica di già sentito) ed una generale attitudine slow/sad che, tuttavia, non riesce ad emozionare, proprio per la cronica mancanza di sfumature emotive interessanti (e no, non basta avere Aaron Dessner dei The National come session man per avere la garanzia di assorbire, per permeazione, la capacità e l'attitudine di una band che sa tratteggiare per davvero con chirurgica precisione la malinconica tristezza del vivere).

 

Ed è oltremodo significativo che il disco torni a funzionare su quei brani ("The Wolf", "Snak Eyes") in cui torna prepotente la classica struttura galoppante tipica della "Mumford & Sons song" (senza banjo, ovviamente), in cui si avverte un barlume dell'energico passato che, per quanto già conosciuto e perfettamente riconoscibile, torna a svegliarci dal torpore che circonda l'ascolto dell'inciso.

 

Se in apertura di articolo si erano espressi dei dubbi, possiamo concluderlo adesso, dopo quasi un'ora di estenuante ascolto, con una certezza: il mutamento di pelle è un'attitudine consona ai serpenti, non agli agnelli. E nel loro non poter tornare indietro e non saper trovare una strada personale ed interessante per il proprio futuro, i Mumford & Sons si dimostrano degli agnelli della musica. E gli agnelli sono carini e magari anche affascinanti nel loro piccolo, ma non aggrediscono, non scuotono e, nel loro essere totalmente privi di carisma, non possono comandare ed insegnare proprio niente a nessuno.





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