Fu il tenero, gioioso, innamorato "My Head Is An Animal" che tre anni fa fece invaghire pressappoco chiunque di una numerosa combriccola di islandesi giovinastri. Lo fece grazie alla freschezza che lo faceva spiccare come qualcosa di nuovo, di glaciale nelle atmosfere e al tempo stesso estivo nelle sue scorribande up-beat, grazie a un'inconsueta maturità nascosta tra la sua fanciullesca esuberanza. Grazie a un delicato folk mai propenso a declinarsi in frenetica baraonda, ma sempre equilibratamente costruito su un elegante doppio filo vocale (la voce deliziosamente morbida di Nanna Bryndis Hilmarsdóttir e quella cullante e carezzevole di Ragnar Þórhallsson) e su aggraziate costruzioni fondamentalmente acustiche, a volte appena sporcate da tocchi elettrici, altre riempite dalla roboanza di trombe e corni.
Gli Of Monsters And Men conobbero così, a sorpresa, un successo enorme, riuscendo nel corso di una trentina di mesi a passare dalla pubblicazione, in punta di piedi, di un esordio inizialmente destinato alla sola Islanda, al trovarsi investiti dell'onore/onere di dover consegnare alle stampe uno dei dischi più attesi dell'anno, questa volta però dal pubblico di tutto il globo terracqueo. Tutte insidiose le strade imboccabili dalla band: meglio mettere in piedi una copia carbone dell'esordio per veleggiare sull'onda del precedente successo, o lanciarsi -come qualche altro che ha ripudiato il banjo dopo averci costruito sopra ogni fortuna- in un coraggioso stravolgimento della propria formula?
Per "Beneath The Skin" il collettivo sceglie un approccio conservativo, mantenendo, specialmente nei singoli trainanti che cominciano già a spargersi per le radio, tutti i già menzionati e ampiamente sperimentati trademark; "Crystals", posta anche in apertura del lotto, ben poco si discosta da ciò che da un brano targato OMAM ci si sarebbe aspettati: tonanti timpani a scandire l'apertura, progressione a voce piena di Nanna appena contrappuntata nel pre-chorus e abilmente doppiata da Raggi nel cantabilissimo ritornello, malinconico e semi-singhiozzato bridge su note in delay e, in conclusione, reprise energizzato della marcetta. E si prova, poi, un curioso mix di spensierato appagamento e terrore di ritrovarsi con una sbiadita riproposizione dell'esordio, mentre ci si inoltra per i primi istanti dell'album, pressappoco fino alla chiusura dell'azzardata (e non riuscitissima, con quelle percussioni lascive un po' retrò, un po' da spiaggia) "Wolves Without Teeth": perché da quel momento in poi, per quanto non facciano mai più di un paio di passi fuori dalla rassicurante safety zone, i sei riescono a sperimentare, talvolta addirittura a stupire.
Si sente così Nanna giocare ancor più che in passato con il proprio spettro vocale e con il suo (più leggero sì, ma sempre presente) nordico accento, indugiando nella sussurrata spettralità della tetra "Thousand Eyes" e immergendosi nella romantica radiofonicità di "I Of The Storm", sillabando irresistibilmente ogni verso della stupenda traccia conclusiva "Winter Sound" e concedendosi, subito prima, parentesi in riverberato slow-motion a la Lykke Li (a proposito: per delittuoso volere della Universal questi ultimi due brani, tra i più validi, sono stati falciati via dall'edizione non islandese del disco. Procuratevi l'edizione deluxe). Si vede Raggi arretrare a un ruolo da attore non protagonista, ottenendo la titolarità di tre strofe in brani non imprescindibili e dando i più qualitativi contributi, da comprimario, in mezzo al tripudio di organi della chiusura di "Hunger". Si percepisce una capacità e una consapevolezza compositiva enormemente aumentata e non più incanalante i brani verso crescendo di "hey" o "la-la-la"; si sentono più chitarre, in un vibe decisamente più pop-rock e concreto che in passato; si sente addirittura il basso, da qualche parte.
Più solido, più variegato, più profondo anche sul versante testuale (curiose le figurate automutilazioni di cui parla, soavemente, "Organs"), "Beneath The Skin" è un album più emotivo, intimo e articolato di quanto si sarebbe potuto sperare (specialmente dopo aver consumato le anticipazioni diffuse nelle settimane precedenti la sua uscita). Certo, manca il fattore sorpresa e l'esuberanza che fece scattare il primo colpo di fulmine, che ci portò a fare di "Little Talks" e di "Dirty Paws" le invadenti colonne sonore di un'estate e di un autunno. Ma, per quanto meno giocosi e fanciulleschi, gli Of Monsters And Men confermano d'essere degli artisti capacissimi, d'aver ancora tantissime frecce al proprio arco. Di saper farci nuovamente innamorare, in un modo questa volta meno irrazionale, più calmo, più ponderato. E non è questa, in fondo, un'impresa dalla portata ancora più grande?