Tra le tante nuove frecce all'arco della Sub Pop Records, i Rose Windows vedono la luce in quel di Seattle come secondo progetto del poliedrico chitarrista e songwriter Chris Cheveyo, stancatosi della precedente, canonica carriera da post-rocker e attorniatosi di un drappello di musicisti (ben sette i membri fissi della band, senza contare svariate altre partecipazioni) affini per ideali e concezioni musicali, per incidere su disco - queste le parole del frontman - "la tristezza di ogni giorno, che il capitalismo e il suo sicario, la religione, instillano in noi".
"The Sun Dogs", questo il titolo dell'opera prima del numeroso collettivo, è animato dunque dal malinconico e prepotente risveglio di uno spirito puramente hippie (immediatamente intuibile, peraltro, dal look etnico e variopinto sfoggiato dalla band). E' una raccolta di vecchie storie raccontate da voci giovanissime, in circolo attorno a un fuoco in cui danzano frequentemente le multicolori fiammate d'una rumorosa psichedelia, che per certi versi richiama i Jefferson Airplane o i primi Jane's Addiction: ruvide, acide, lamentose elettriche danno vita all'ottimo solo che rilancia una altrimenti noiosetta "Walkin' With A Woman", all'arrancante progressione della tenebrosa "This Shroud", alla travolgente baraonda del superbo singolo "Native Dreams". Gli onnipresenti flauti e discrete acustiche si appropriano invece della parte centrale dell'LP, guidando un folk intimo (ed in verità abbastanza inconcludente) e dalle molteplici curiose sfumature, che guarda adesso a passati tempi di rivoluzione, adesso alla storia nativa americana, adesso addirittura a un esotico estremo Oriente.
Ci si rende conto presto, tuttavia, di come il tutto suoni un po' raffazzonato e inautentico, riuscito soltanto a metà: nello stilare tutto un appello di reinterpretazioni di classici, non si riesce a soprassedere sull'ingiustificata assenza di un qualche afflato d'originalità, di una nuova idea. Così, piuttosto che far sentire la viscida ma vivida sensazione del fango di Woodstock, "The Sun Dogs" lascia soltanto un meno attraente sentore di polvere. La polvere di vecchi vinili tirati giù dal dimenticatoio dei solai, per rimpolpare un'eterogenea collezione di omaggi della quale, una volta passati oltre il diversivo offerto dagli allucinogeni spasmi delle sei corde, rimane un'assoluta impeccabilità stilistica ma anche un'inquietante e quasi totale assenza d'anima.