The Prodigy
The Day Is My Enemy

2015, Take Me to the Hospital
Elettronica

Le frecce all'arco dei Prodigy ci sono ancora, e in buon numero. Ma sono un po' spuntate.
Recensione di Giovanni Maria Dettori - Pubblicata in data: 03/09/15

Sono cambiati i tempi da quel 1997, quando "The Fat Of The Land" incendiava Rave improvvisati in parcheggi, garage o foreste e i Prodigy rappresentavano la quintessenza della "Sick music" Britannica, nonché i padrini del Big Beat. Oggi la cultura rave è pressochè sparita, se non altro decisamente ridimensionata. Eppure chiamiamola sindrome di Peter Pan, chiamiamola ostinazione, gli ormai-non-più-così-giovani ragazzi dell'Essex hanno tenuto duro, superando momenti di alti e bassi, tra dissidi, cambi di formazione ed alcuni lavori non proprio eccelsi.

 

Chi li dava per finiti ha dovuto ricredersi quando nel 2009 "Invaders Must Die" ha dato nuova linfa vitale al trio, presentandosi come uno dei migliori lavori in assoluto del gruppo. Ma quanto a lungo può andare avanti il gioco? Gli anni passano, dopo svariati eccessi, con i seguenti problemi di salute, e nonostante qualche chilo di troppo, gli "zii" del Big Beat però sono tornati con "The Day Is My Enemy", composto da ben 14 tracce, e accompagnato da un Tour di tutto rispetto. Ma stavolta qualcosa scricchiola.

 

L'album è un grande punto d'incontro fra quello che erano, sono... E di quello che dunque dovrebbero essere i Prodigy in futuro. Eppure è proprio quest'ultimo punto il problema. Ogni traccia finisce per essere un "riassemblamento", un deja vu, di lavori del passato, con risultati alterni. Basta partire dalla traccia d'apertura, l'omonima "The Day Is My Enemy" per sentire qualcosa di un po' tanto vicino ad una "Spitfire", o con la seguente "Nasty", che evita la troppa somiglianza con "Omen" grazie ad un massiccio utilizzo di suoni distorti, quasi alieni, che fanno da contorno al tutto. Però le tracce alla fine si fanno apprezzare entrambe. Non è lo stesso con "Ibiza", in collaborazione con il duo "Sleaford Mods", una sorta di electro-punk, che si scaglia contro i DJ dell'ultim'ora, quelli che affollano DJ-Set fatti di cocktail, selfie e Pc con l'auto-mix pronto, che dall'alto della loro esperienza sul campo i nostri ragazzacci si sentono in dovere di colpire. "Destroy" e "Rebel Radio" invece sono modellate sullo stile "Fat Of The Land", giusto per non dimenticarsi di nessuno, e non entusiasmano. Meglio "Wild Frontier", dai toni più distesi e Pop, che almeno possiamo catalogare in una zona franca, e dove non scatta la gara alla ricerca di somiglianze con brani del passato, degne del peggior "Indovina Chi?". La prima metà dell'album va così, ma paradossalmente è quella che funziona meglio, perché d'altronde se il modello di riferimento è valido, lo stesso pezzo finisce per esserlo. Dopo "Rock Weiler", dove il "Wub-Wub" di Dubsteppiana matrice fa la sua parte (costituendo finalmente qualcosa di nuovo all'interno del lavoro), arriva un interludio in stile Deadmau5, "Beyond The Deathray", con cui l'album si spegne progressivamente, infatti mentre la Drumstep di"Rhythm Bomb" tiene i colpi, grazie anche alla collaborazione di Flux Pavilion, i restanti cinque pezzi sono piuttosto insipidi, e in alcuni casi ("Medicine" e "Get Your Fight On") siamo al limite dell'auto-plagio.

 

Ci troviamo dunque davanti ad una sorta di Greatest Hits camuffato, un album che non è brutto, ma neanche uno di quelli che fanno impazzire, un lavoro in cui Liam Howlett e co. hanno preferito ad un po' di (a volte sana) innovazione, un confronto con se stessi, puntando ad andare avanti, ma saldamente ancorati a quanto fatto in passato. Ma più che attaccarsi, qui ci si è proprio appiccicati all'ancora. L'auto-ispirazione fa sempre bene, ma quando all' "emulatio" segue la "imitatio", per dirla alla latina, è evidente che il prodotto non può risultare eccellente. Ma nemmeno così brutto. L'album infatti si attesta sui livelli della sufficienza, ma in fondo può andare bene così. Nessuno esigeva un capolavoro, certo potevamo assistere a scenari più entusiasmanti, specie dai due Featuring, che nonostante la "freschezza" degli artisti scelti, non hanno aiutato a superare quel dannato limite sul quale si arena The Day is My Enemy, ma non c'è da prendersela. I fans pagheranno il biglietto, e I Prodigy dal vivo continueranno a regalare loro trastullo e pogo a non finire. Che lo vogliamo o no, assieme a pochi altri, sono gli ultimi testimoni di una cultura musicale oggi molto lontana. E in questo somigliano proprio alla Volpe ritratta sulla copertina: un animale che nonostante le trappole, e nonostante il suo habitat naturale sia sempre più minacciato, se la cava sempre.


E giusto per riprendere il discorso sulla "Sindrome da Peter Pan", e giusto perché le metafore ci piacciono tanto, siamo certi che la loro "Isola che non c'è" non esiste più, ma loro possono tranquillamente permettersi di fare ancora per un po' i "Bimbi sperduti".





01. The Day Is My Enemy
02. Nasty
03. Rebel Radio
04. Ibiza
05. Destroy
06. Wild Frontier
07. Rok-Weiler
08. Beyond the Deathray
10. Roadblox
11. Get Your Fight On
12. Medicine
13. Invisible Sun
14. Wall of Death

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