The Tangent
The Slow Rust Of Forgotten Machinery

2017, Inside Out Music
Progressive Rock

Recensione di Valerio Cesarini - Pubblicata in data: 31/07/17

Il fenomeno dei "supergruppi", pensandoci bene, risulta decisamente in voga nel prog rock moderno, e - per capirci - è quel fenomeno che ci fa leggere di Neal Morse, Roine Stolt e compagnia bella su due dischi su tre. Forse i Transatlantic del buon Portnoy hanno sdoganato un trend, ma la verità è che, più probabilmente, i musicisti che aderiscono al mondo del progressive hanno semplicemente voglia di suonare. E così nascono gruppi variegati, collaborazioni e nuovi panorami musicali, dove spesso una personalità centrale dà la propria forma al progetto.

 

E' il caso del poliedrico Andy Tillison e dei "suoi" The Tangent, nati come il "solito" supergruppo di cui sopra, con il "solito" Roine Stolt di cui sopra e altre personalità interessanti che si sono susseguite nel tempo (Guy Manning, Gavin Harrison).
Instancabile realtà studio, i The Tangent sono ad oggi al nono album: "The Slow Rust Of Forgotten Machinery", con l'ennesima formazione aggiornata che vede il celebre Theo Travis ai fiati ma anche forze giovani come Marie-Eve De Gaultier alle tastiere e alle voci.

 

A questo punto affrontiamo un altro cliché del prog moderno: l'etichetta di "neo-prog"; come se fosse una maniera diversa di interpretare un genere, come se la mimesi sorpassasse la veracità e l'originalità. Furono definiti neo-prog i primi Marillion, ai tempi delle influenze dei Genesis (a cui seguì una evoluzione formidabile, ma non basterebbero queste pagine), i vari Flower Kings e Spock's Beard; i The Tangent sembrano non fare eccezione. Risulta invece un'etichetta un po' ingrata: le influenze degli anni d'oro del primo progressive naturalmente sono ben presenti in Tillison e nel disco in generale, ma, deo gratias, c'è modo e modo di lasciarsi ispirare dai bei vecchi tempi.


"The Slow Rust Of Forgotten Machinery" è una raccolta completa, un insieme di brani ben costruito e soprattutto costante, senza scivoloni e dalle idee piuttosto chiare. Riuscita convivenza fra atmosfere settantiane e mondo moderno, fra voci pulitissime, moog e hammond quasi obbligati, batteria aggressiva - fra l'altro suonata dall'istancabile Tillison, e, importante, chitarre di stampo quasi metal del virtuoso (decisamente "figlio del moderno") Luke Machin.
Se le prime due tracce, "Two Rope Swings" e la strumentale "Doctor Livingstone (I Presume)" possono forse tradire l'eccessivo legame con i tempi antichi di cui parlavamo poco fa, il susseguirsi di momenti musicali pertinenti e riusciti, e di sonorità classiche ma indimenticabili, permette un piacevole accesso alla titletrack, lunga epica di 22 minuti in cui si esprime la summa dei The Tangent. "Slow Rust" è un viaggio di cui forse conosciamo già alcuni panorami, ma dai quali sappiamo ancora rimanere stupiti. Accordi arcobaleno, intrecci di voci, organi e archi; ritmi classici, brusche virate per atmosfere decisamente moderne, fra voci distorte e chitarre velenose.
Il brano, dunque, risulta eloquente per farsi un'idea di tutte le intenzioni del disco, fra pregi e difetti. Uno dei quali la scelta di usare chitarre sintetiche - o comunque decisamente troppo "diritte", poco piacevoli, soprattutto in momenti in cui la cara, vecchia imprecisione di una mano umana avrebbe dato null'altro che vita ed emozione. D'altronde nei grandi dischi del prog ci sono stati chitarristi dal tocco decisamente meno educato di Luke Machin.

 

D'altra parte, l'alternanza di momenti musicali differenti ma credibili, quasi in un viaggio nella musica da quarant'anni fa ad oggi, viene ribadita nelle tracce successive, e ci porta a trovare tutti i tipici espedienti del progressive nella sua evoluzione nel tempo, siano accordi jazz su un piano elettrico o synth e arpeggiatori come quelli in "The Sad Story Of Lead And Astatine".


Ricapitolando: non c'è ricerca dell'originalità a tutti i costi, ma non è neanche necessaria. Non c'è volontà di sciorinare le proprie abilità, ma vengono fuori comunque. Non c'è forse l'attenzione necessaria su alcune questioni sonore e di produzione. Non ci sono un sacco di cose, ma, salvo qualche neo, chi si azzarderebbe a dire che è sbagliato?
Le cinque tracce, lunghe come il Dio del prog proclamò, scorrono con piacere, dipingono tutti i colori che devono, e, soprattutto, rendono The Slow Rust un disco praticamente impossibile da sconsigliare.





01. Two Rope Swings

02. Doctor Livingstone (I Presume)

03. Slow Rust

04. The Sad Story Of Lead And Astatine

05. A Few Steps Down The Wrong Road 

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